Racconti dal deserto, di Stefano Sanfilippo (Edizioni Vulcaniche)

Racconti dal deserto, di Stefano Sanfilippo (Edizioni Vulcaniche)

Questo libro è nato dalla raccolta, da parte dell’autore, delle proprie esperienze in Africa, in Rwanda e in Djibouti come volontario in ospedale e nella formazione delle tecniche di soccorso rivolta a infermieri, autisti e medici d’ambulanza.
Emergono i luoghi, sfondo potente e primordiale, nei loro colori, fra i quali domina il rosso intenso della terra, che l’autore descrive in un paragrafo che resta impresso per l’efficacia metaforica: “Da queste parti il rosso della terra non è un singolo rosso e neppure tanti rossi qualsiasi, ammesso che il rosso, di per sé, possa essere banale. Quando volevo descriverlo a qualcuno stemperavo le tinte mettendoci dell’amaranto, ma riferendomi proprio all’amaranto inteso come cereale, che pochi conoscono; poi aggiungevo poca polvere di mattone, quello dei palazzi antichi e infine completavo con ciò che s’avvicinava all’idea di rosso che volevo io, ma che, ancor più dell’amaranto, pochissimi hanno visto: il berberè, la spezia piacevolmente piccante usata in tutto il Corno d’Africa”.
Affascina e resta impressa la descrizione delle collinette rocciose di Djibouti, la cui conformazione fa immaginare “un’ouverture geologica” effetto cinemascope: “un giorno, di qualche milione di anni addietro, probabilmente era mattina molto presto, alcuni vulcani decisero di eruttare tutti insieme. Sputarono tonnellate di lava incandescente, macigni, pietre, polvere e vapore. Per raffreddare i bollori, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano decisero di abbracciare quei vulcani, dandosi appuntamento nel Golfo di Aden. E così l’acqua li fermò a est creando quella tinozza bollente, crepata sul fondo, che è Djibouti”.
Emerge il suo clima torrido, impetuoso e avvolgente.
Emergono le persone, dalle suore che gestivano le strutture assistenziali, come Suor Rambo, eloquentemente soprannominata dall’autore (fra sé e sé, naturalmente, mai chiamata così di persona), al ragazzo guerriero protagonista del primo racconto, dalla camminata ciondolante tipica dei nostri adolescenti, che aspettava, indifferente con una bomba a mano nella cintura, facendo domandare all’autore, “se si sentiva un bambino soldato o un patriota, se per lui la guerra era etnica o santa, se avevo perso più parenti o di più ne aveva ucciso”. Da Souber, l’infermiere adjoutant, di origine issa, cioè somala, dotato di un’ironia che favoriva, insieme alla conoscenza delle lingue, l’integrazione fra occidentali ed indigeni a Mohammed, nato nel posto sbagliato, vittima di una terra, di una cultura, di una solitudine incomprensibili.
La scrittura di Sanfilippo è perfetta, calibrata al contenuto, ricca nel lessico, moderna nella sintassi, scenografica nella resa delle descrizioni. Ci si immaginano i paesaggi rappresentati, li si vede scorrere davanti ai propri occhi, si sentono i silenzi, le brezze rare, le parole sconosciute. È un libro di storie vere, toccanti, indimenticabili: generano pietà, rabbia e dolcezza. Pietà per le condizioni di privazione assoluta, rabbia per l’assurdità di conflitti civili che infieriscono su un popolo già in lotta con la natura, nella cui storia l’autore ci fa entrare attraverso una via nascosta, diversa da quella dei mass media, nei quali “Come in una grottesca asta al rialzo si offrivano al telespettatore seduto a tavola una o più teorie, purché semplici, che spiegassero tutto quanto, che non lo sconvolgessero troppo col rischio di andare a parare, magari sugli interessi di pochi e sulla brama di potere che caratterizza quasi tutti gli uomini in tutte le latitudini, da sempre. E così si tirava fuori l’odio tra etnìe diverse, la guerra tra le solite tribù selvagge dell’Africa…” E si taceva molto altro, di più vicino e di più delicato.
Ma c’è anche tanta dolcezza per chi, come missionari e volontari, è capace di vedere l’anima di questi popoli e questi luoghi, di voler dedicare parte della propria vita ad instillare conoscenza, di sentirsi a casa nel guazzabuglio di materiale servibile e inservibile, di farsi portavoce di quel magico principio del “difetto perfetto”: ciò che da noi è spesso ritenuto inadeguato, là, “nella mani giuste di medici e infermieri, si trasforma nell’adeguato che aiuta un bambino a sperare di crescere. Perché, in fondo, incipit del penultimo capitolo, “a incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone”. È una frase importante, che ridimensiona la responsabilità delle diversità oggettive per amplificare quella dei singoli soggetti. Una responsabilità nel male degli scontri ma anche e soprattutto nel bene degli incontri: ciascuno può fare qualcosa, anche solo togliere una pietra ad uno dei tanti “troppi muri fatti di paura, su cui sono attaccate vecchie carte di un mondo distorto, in cui ogni paese sta da solo senza conoscere quello vicino”.