Femministe, di Antonella Selva (Nuova S1)

Femministe, di Antonella Selva (Nuova S1)

Antonella Selva, narratrice che usa la matita sfumata con la stessa efficacia della penna narrativa, dedica questa graphic novel ai femminismi, un termine che ha cominciato a sostituirsi, in certi contesti, al più classico ‘femminismo’ sulla scia di varie forme che a partire dagli anni ’60 hanno cercato di portare avanti voci femminili diverse, sottolineando la molteplicità della figura femminile.

Il romanzo si apre su una storia di cornice, con due personaggi principali: Irma, sedicente femminista, insegnante in un Istituto tecnico di Bologna, pronta a difendere le sue allieve extracomunitarie di fronte a chiacchiere e pregiudizi di altre e Afkar, una sua allieva diciassettenne marocchina. Tuttavia Afkar ha, della marocchina, solo la pelle, i bellissimi capelli rasta e forse il colore del visto (che non emerge nel fumetto in bianco e nero dell’autrice la quale, pur sapendo egregiamente usare i colori, qui ha emblematicamente preferito alternare i tratti nero e bianco e le loro sfumature). Si veste e vive come un’italiana.

Quando decide di assumere un aiuto domestico e la collega Amalia le chiede di prendere una giovane ragazza del Marocco che ha bisogno di lavorare, Irma non si tira indietro. Forse si aspetta di avere un’altra Afkar in casa. Ma Hayat non è come Afkar. Hayat non parla bene l’italiano e soprattutto porta il velo. A differenza della sua giovane studentessa, Hayat esprime la propria origine in modo inconfutabile, si distingue, si trova inevitabilmente nella condizione di essere giudicata dall’apparenza. E Irma cade nella trappola. Sente disagio per “quel velo da suora”: ed in questa espressione che ritorna più volte nel dialogo col compagno, c’è, deciso ed evidente, uno snobismo travestito da imbarazzo. E Hayat, che dalla vita ha imparato a leggere negli altri la sostanza oltre la forma, sente, con insofferenza, la mistificazione inconscia di Irma. Vorrebbe andarsene. Non fuggire, però, perché nella sua vita non è mai fuggita; ha sempre e solo cercato il modo di cambiare le cose per il bene di sé e di chi aveva vicino. Questo è progresso nel senso etimologico del termine: andare oltre, entrare in  una prospettiva più evoluta della precedente.

Così si entra nella cornice interna della storia di Hayat, dalla sua famiglia in Marocco, troppo numerosa per poterle permettere, dopo la morte del padre, di continuare gli studi, alla realtà di Marrakech dove è sfruttata e maltrattata, a Casablanca presso gli zii di un’amica, dove si rinfranca nel rispetto e nell’amicizia. I disegni dell’autrice, in queste pagine, si concentrano su dettagli antropologici, inscritti in piccole vignette come scatoline di gioielli: due pani, un coltello che affetta, una teiera che bolle, un pugno di farina, mani che impastano, una gerla, un orologio, stoviglie; ma anche scorci, due finestre ad ogiva, uno stipite intagliato.

Il grave incidente della sorellina la chiama a Ouarzazate, l’ospedale più grande del paese, dove vengono portati i casi più complessi. Lascia la pace e la fiducia della famiglia di Casablanca e va ad assisterla. Le pagine del racconto dell’incidente, figure quasi in 21:9, in cui non c’è nulla se non grigio di pareti, finestre chiuse e figure in ombra, senza dettagli, esprimono l’unica sensazione rimasta nel ricordo di quei momenti: un nero disperato. 

Hayat rimane a lavorare lì, pronta con chiunque la chiami per un aiuto. Colpisce il contrasto fra le sue condizioni di estremo bisogno per il sostentamento della famiglia e le cure della sorella e la dedizione al superfluo di chi chiede il suo aiuto: “hanno bisogno di una cuoca per il matrimonio della figlia del bascia…”, “all’hotel è arrivato un gruppo di francesi, hanno bisogno di un rinforzo nel ménage…”, “a casa del dottore cercano una cuoca per la festa della circoncisione…”, “si è aperta la stagione delle escursioni nel deserto, al ristorante c’è bisogno di personale con esperienza…”. Bisogno: parola che ricorre sulla bocca di tutti coloro che hanno già tanto. Lei, che non ha quasi nulla, risponde a quel bisogno con prontezza, dedizione e silenzio. Una vita di sacrifici che la porta a conoscere le persone giuste: un gruppo di italiani in visita al paese, le apre la porta magica di una rete internazionale di aiuti umanitari, le cui fila la portano a Bologna.

C’è un messaggio molto significativo in queste pagine: il concetto di libertà non deve essere imposto, ma rispettato per come si manifesta: “Quante facce ha la libertà?” è la domanda che in un altro libro (La Sentenza, Frassinelli 2011) si pone Valerio Varesi, grande scrittore storico che ha dato, nella Prefazione, il suo sensibile contributo a questa storia, le cui protagoniste sono alla ricerca della libertà di autodeterminarsi su valori scelti da loro e non giudicati col metro di una cultura diversa.