Questo è il mio sangue, di Matteo Bortolotti (Mondadori)

Questo è il mio sangue, di Matteo Bortolotti (Mondadori)

Un esordio Mondadori per un giovane di 24 anni è uno scoop. Matteo Bortolotti, di Bologna, ha questo fiore all’occhiello della propria carriera di scrittore, sceneggiatore, docente, consulente di marketing umanistico. Un esordio d’impatto, impietoso, appassionato che guarda con coraggio l’ambiente più umile e disilluso di una Bologna che non è solo rarefazione storica medievale, ma anche una città di strade; strade come ce ne sono in tanti paesi, dove “la speranza è una zavorra che pesa troppo” e viene abbandonata in un angolo. Altrettanto impattante è la personalità del protagonista, Walter Maggiorani, cupo, introverso, reticente a rivelare la propria storia. È un prete, questo è chiaro, ma è altrettanto chiaro che non è un prete come dovrebbe essere: ha un passato oscuro, indelebile che qualcuno ha l’illusione di poter in parte pulire con la sua nuova veste clericale ma lui è l’ultimo a crederci: “Il passato non bussa alla porta della coscienza, la butta giù a spallate”. Sembra quasi disposto, come il mitico Atlante, a portarselo addosso per sempre, a memoria più che ad espiazione di una colpa troppo grave: “Ci insegnano a perdonare gli altri, non a perdonare noi stessi”.

In quella veste clericale, che a fatica nasconde il suo carattere violento e impetuoso, Walter collabora con la giustizia. E lo fa non prescindendo dal quello che è stato, anzi sfruttando quel giro di conoscenze nei bassifondi che esperienze precedenti e detenzione in carcere gli hanno dato. Questa storia che sembra collocarsi nel mezzo di altre, lasciando immaginare il pregresso e invogliando ad un seguito, lo vede coinvolto contemporaneamente su due fronti, contrapposti e inconciliabili, quello della Chiesa e quello della prostituzione.

Milan Cusic, un giovane albanese di quei bassifondi che aleggiano nel passato di Maggiorani, lo ha chiamato disperato dopo che ha ritrovato pesta, violentata e insanguinata, una delle donne che gestisce, Svetlana, la più giovane e ingenua, alla quale, forse, per la prima volta, si era davvero affezionato: “Io voglio un figlio da lei, Maggio (…). Se lei muore io mi ammazzo”. Quella voce “di un nastro rovinato” convince Walter che per quanto possa sembrare incredibile, il giovane fa sul serio: “sembrava la fotografia di Dio. Le stesse lacrime, la stessa rabbia cieca, e pure lo stesso distacco dal bene e dal male”. Così come hanno fatto sul serio quelli che hanno aggredito la giovane Svetlana. E l’amico gli sta chiedendo di salvarle la vita e di trovargli chi l’ha ridotta così.

Dall’alto della piramide sociale, invece, il Cardinale gli chiede di trovare una ragazza, Mara, di cui non vuole rivelare altro. Walter deve arrangiarsi, usare le sue conoscenze, non far sapere chi né per conto di chi sta cercando. Il Cardinale sa che quella colpa indelebile è una garanzia di fedeltà, non per paura, perché è evidente che Walter non è imbrigliabile dalla paura; Walter è guidato da quelle passioni primordiali di difesa ed attacco, di solidarietà e vendetta che fanno parte di ciascuno di noi e che le leggi si sono fatte carico di gestire in maniera oggettiva. Quelle leggi e le istituzioni religiose e civili da cui promanano (rappresentate dal Cardinale e dal commissario Gattamorta, burbero ma sensibile alla sofferente condizione di Maggiorani e depositario di una sfumatura ironica in gradevole distacco dal fondale noir del romanzo) ora trattengono Walter come a un guinzaglio, che saprà allungare sempre più, attorcigliare, senza mai tagliare però. Dopo quello che ha fatto e che lo ha portato a quella situazione preferisce che qualcun altro, più lucido di lui, lo aiuti a non ricadere più nel baratro del male.

Svetlana e Mara sono voci inconsapevoli che aleggiano nella nebbia dell’inconscio del loro stato comatoso: la prima per le ferite, la seconda per overdose. Sono simbolo di una violenza subita con profonda ingiustizia, perché, non pienamente consce della sporcizia del mondo in cui erano capitate, si sono trovate al centro di giochi più grandi di loro. La droga è lo spettro vagante nelle pagine di questo romanzo, negli effetti devastanti sulla psiche che si mostrano in tutto lo strazio dei deliri di Mara. Ma è anche un’arma letale, ripetutamente usata dall’assassino per mettere fuori gioco chiunque gli sia scomodo. Anche Walter. Perché le piste tracciate dalle due ragazze convergono su di una sola persona, un fantomatico uomo in giacca di flanella, il cui inseguimento che è nello stesso tempo una fuga, travolge nella lettura in un ritmo di eventi e colpi di scena sempre più serrato e frenetico, sul basso continuo della rabbia di Walter e Milan. 

La prosa di Bortolotti è diretta, essenziale, lucida. Frasi come stilettate che si addolciscono in metafore di rara poesia, come “la polka ossessiva dei grilli e delle cicale” di un torrido pomeriggio estivo.