La prigione di carta, di Marco Onnembo (Sperling & Kupfer)
Malcolm King, professore di scrittura creativa, è una vox clamantis in deserto in un mondo ormai completamente digitalizzato. Nella visione distopica che il contesto della pandemia con le conseguenze della DAD e dell’informatizzazione dei servizi sempre più estesa (ben oltre l’immaginato dall’autore quando, nel 2019, cominciò a scrivere il romanzo) rende quasi una realtà, il sistema di governo americano ha abolito completamente la carta da tutto ciò che riguarda l’istruzione: “Incitamento alla consunzione ambientale e Ostacolo alla digitalizzazione. Reati gravissimi, come l’omicidio, per il quale la pena era l’ergastolo. Erano stati inventati ad hoc dal legislatore per gli insegnanti di ogni ordine e grado che avessero impedito ai discenti di accedere all’apprendimento delle nuove scienze e all’applicazione del sapere secondo gli standard definiti dalla digitodidattica attraverso l’uso di tutti gli strumenti elettronici per tale scopo adoperati”.
I ragazzi dell’ultima generazione non possiedono più libri cartacei, fuorilegge come in Fahrenheit 451; non sanno più scrivere a penna, né tantomeno leggere una grafia manoscritta: “la calligrafia, il tratto di penna che ci rende unici. Non esistono al mondo due persone con la stessa scrittura (…). Più o meno come sapere che le impronte digitali sono uniche. Ma la scrittura portava in sé anche qualcosa di più eterno. È una impronta indelebile nella storia”.
È ad una di queste classi che il professor King si trova ad insegnare. Ma pur sforzandosi di aderire al sistema, la sua formazione tradizionale, la sua passione letteraria, la sua sensibilità per tutto ciò che girava intorno a libri, quaderni, scrittura, è troppo forte in lui, troppo straziante il vederla del tutto cancellata: “Una follia che si ripercuoterà sui ragazzi, sulla loro capacità di inventare metafore. Combinare frasi e parole per ricavarne un senso diverso. Immagini. Suoni. Odori descritti sapientemente”.
Il giorno in cui doveva entrare in vigore il provvedimento “Sulla digitalizzazione e le nuove forme dell’apprendimento”, è il giorno cruciale della sua vita, la svolta di tutto, il punto di non ritorno. Prova ad opporsi guidando i suoi studenti in una pacifica protesta contro quella “maledetta legge”. Ma viene arrestato, accusato di aver “strumentalizzato la coscienza dei ragazzi” e, dopo un rapido processo, condannato all’ergastolo.
“Strumentalizzato la coscienza dei ragazzi” è come una percossa fisica per lui che, per tutta la sua carriera aveva aspirato a fare proprio il contrario, a liberare la loro coscienza, che sarà sempre “l’unico posto, forse, dove non conta l’opinione della maggioranza”; a stimolarli ad un’autonomia di giudizio, ad un’elaborazione del proprio sé in completa libertà.
Dalla sua prigione, il professore, ormai vecchio, dopo 35 anni passati lì dentro, scrive i propri ricordi, trasformando in cartacea la squallida prigione nella quale si trova. Struggente il contrasto fra le scene di violenza, volgarità e sudiciume del suo presente e le scene radiose e felici del suo passato, i giorni sereni della sua vita ripensati e raccontati calcando sull’idillio di una quotidianità praticamente perfetta (che sta preparando, impercettibilmente, subliminalmente, il colpo di scena finale): la vita in periferia, alla quale ha accettato di convertirsi abbandonando New York, non solo per far piacere alla moglie ma anche per sfuggire alla persecuzione di un ricordo traumatico che lo ha segnato nel profondo, lasciandogli la prima di una lunga serie di cicatrici, il volo di una bambina dall’ultimo piano di un palazzo, al quale casualmente si trova ad assistere, un dramma consumatosi nel silenzio dell’incomprensione da parte della piccola di ciò che le stava accadendo e che segnerà per sempre il suo silenzio, portandolo a cercare in ogni modo di coprirlo di rumori e suoni (non camminerà mai più per la strada senza gli auricolari di un walkman dai quali ascoltare musica); l’adorata moglie Lynette, lo specchio nel quale si rifletteva per capirsi e accettarsi, la compagna che col suo sorriso e la sua intelligenza dava un senso al suo quotidiano; il figlio Buddy, fulcro della famiglia intorno al quale ruotavano le complicità della vita di ogni giorno; il grande, fondamentale amico di una vita, Charlie, compagno di università, di ragazzate, poi di conforto e sostegno nei momenti difficili (le sue vitamine, come lo soprannominava), era stato lui a presentargli Lynette, realizzando la sua felicità.
Ma, ancora più struggente, perché più profondo e speciale, il rapporto con i suoi studenti, i suoi ragazzi, ai quali dal primo giorno di ogni semestre si votava con tutto sé stesso per trasmettere loro il massimo di quello che poteva, per fare di loro uomini degni di questo nome: “Volevo dare ai ragazzi la possibilità di scrutarmi, di giudicarmi dall’aspetto. Volevo si creassero delle aspettative. Grandiose o pessime che fossero, poco importava. Era bello confutare quelle negative. La prendevo come una sfida. Così come confermare quelle buone. Le buone impressioni sono ancora più difficili da mantenere. Devi conservare la giusta intonazione per un intero semestre, anche perché le iene tendono a sbranare la preda appena la sentono barcollare. Mi piaceva anche l’idea di offrire il fianco in un momento di apparente normalità, dare modo di giudicarmi sembrando senza difese. E lasciar loro perfino il privilegio del pregiudizio. Ai ragazzi va concesso, agli adulti, invece, è riservato il compito di insegnargli la dimensione della profondità”.
Emblematiche le lezioni sull’innamoramento, sulla musica, sulla verità, sul silenzio, che sono appassionate estrinsecazioni di valori che vede sbiadire sempre di più per la sua stessa generazione tanto da non essere ormai più percepiti dalla nuova. E così tenta di scuoterli, camminando fra loro in quell’aula ad emiciclo, lasciandosi trasportare dall’enfasi di un’illusione che sa non poter essere altro, perché nessuno dei ragazzi di fronte a lui forse arriverà a cogliere il seme di libero arbitrio che sta cercando di piantare in loro e che non attecchisce. Forse.
Poi, ad un certo punto, il colpo di scena. Una pagina, una sola potentissima pagina del romanzo concentra dramma e thriller nell’incubo della realtà.
La difesa del libro cartaceo è il messaggio principale che emerge da questo romanzo nuovo, nuovo e suggestivo nella trama, sconvolgente (e appagante) nel finale. Ma non è il solo. Lo sono anche quei valori fondamentali della vita ai quali il protagonista, e l’autore dietro di lui, cerca di sensibilizzare i suoi studenti: l’amore (il più potente, che move il cielo e l’altre stelle), la verità ed il tempo, dei quali è stato malignamente privato. Un tradimento gli ha strappato l’amore e le sue declinazioni familiari, usando contro di lui una verità spietata, quella dell’inganno e del complotto e, infine, privandolo per sempre della libertà. La reclusione in cella è un furto di tempo: quella condanna all’ergastolo commutata in 35 anni per buona condotta restituisce il vecchio professore alla vita su un baratro di un’intera esistenza non vissuta. Ed il tempo ha sì varcato quel baratro ma “come una gomma che cancella i tratti di una matita su un foglio bianco. Toglie i segni in superficie quanto basta da rendere difficile la lettura di quel tiepido chiaroscuro. Ma non ne restituisce mai il candore iniziale. Rimane sempre qualche flebile traccia della storia che una volta vi era scritta”.
La prigione di carta nella quale si è rinchiuso, gli ha consentito di sopravvivere per tutto quel tempo, scrivendola lui quella vita che non gli era stato concesso di vivere. E quando finalmente uscirà, si ritroverà solo e ombra di sé stesso, per pochi brevissimi istanti perché quello che era stato il seme gettato con l’insegnamento agli inizi della sua carriera, aveva dato buoni frutti. È questo il messaggio finale che ci consegna l’autore: il calore dei libri, la complicità intima di una scrittura personale, il senso di fiducia e rifugio che la condivisione del piacere di leggere e scrivere offrono a chi sa salvaguardarli per tutta la vita.