Le parole per dirlo, a cura di Giuseppina Martelli, Alba Piolanti e Anna Vinci (UDI)
Se per viaggio intendiamo non solo uno spostamento fisico nei luoghi ma anche un percorso interiore, questo è senza dubbio un reportage di viaggio: il viaggio che tre donne straordinarie, Alba Piolanti, Giuseppina Martelli e Anna Vinci, mosse solo da spirito di solidarietà, hanno fatto incontro ad altre donne, detenute presso la sezione femminile del carcere della Dozza di Bologna, prigioniere in senso reale ma anche in senso metaforico: rinchiuse nel buio dell’incertezza su quelle che sarebbero state le conseguenze del fatto compiuto, non tanto le conseguenze della reclusione, ormai accettate, ma le conseguenze sulla propria reintegrazione sociale, prima di tutto nel contesto familiare: “Il carcere (…) punisce ancora di più la donna nella sua funzione specifica di madre e insieme a lei i suoi figli (…). Pertanto, l’intervento dall’esterno e il confronto sereno e paritetico sono strumenti che superano il semplice assistenzialismo e si muovono verso la rieducazione, l’inserimento e l’integrazione nella comunità, prima dentro il carcere e poi fuori nella società”.
Alba, Giuseppina e Anna si sono recate periodicamente nella casa circondariale di Bologna, presentandosi alle detenute con sincera apertura, senza pregiudizi, senza voler neppure sapere perché e per quanto dovevano restare lì; riuscendo in breve a superare la loro diffidenza iniziale (fatta di paura e inconsapevolezza, non di rabbia né di odio), col sorriso, con l’ascolto, con il dialogo che, non sempre oggettivamente facile per la diversa provenienza delle donne e la non piena padronanza della lingua italiana da parte di molte di loro, era fatto soprattutto di gesti semplici, di sguardi, di parole. E’ proprio attraverso le parole che viene compiuto quel percorso: parole semplici e importanti – libertà, amore, amicizia, speranza, perdono – pronunciate, scritte, disegnate, che prima sono isolate poi aumentano sempre di più diventando struggenti racconti.
Questo è il viaggio che hanno fatto, ognuna prima dentro se stessa, le proprie paure e le proprie speranze, e poi verso le altre, arrivando ad un traguardo fondamentale: sentirsi persone, sentirsi libere anche lì dentro nell’aspettative di poter aspirare ad altro. E dal leggere allo scrivere: tante di loro sono riuscite a mettere su carta le loro riflessioni, anche in un italiano stentato, che il libro riporta nella sua genuinità offrendoci dei pensieri spontanei e autentici, piccole perle di emozioni: “È nel passato quello che ho fatto…non sarà il mio presente o il mio futuro…vorrei una opportunità per fare le cose correttamente, per continuare l’apprendimento della vita…una opportunità per lavorare e guadagnarmi il pane, per fare un lavoro dignitoso, dove quello che so, quello che penso sia quello che importa…non la mia macchia…”.
Il libro è un piccolo diario tenuto dalle tre volontarie UDI arricchito dalle pagine dei diari tenuti, su loro invito, dalle detenute. Leggiamo così delle testimonianze di umiltà e sofferenza, di profonda umanità nell’accettazione di una pena che potrà, forse o no nella loro percezione, cancellare la macchia che si sentono addosso. Ci vogliono provare perché sanno che fuori le aspetta la parte buona di loro e della loro vita, marito, genitori, figli che saranno per loro la prova vera dell’espiazione totale: riavere quegli affetti è l’unica forma libertà cui aspirano. E soprattutto i figli. Sono loro i primi orizzonti ai quali quelle donne madri guardano intimamente.