Seconda possibilità, di Renato Ghezzi (Le Mezzelane)

Seconda possibilità, di Renato Ghezzi (Le Mezzelane)

All’origine di questo romanzo c’è un episodio vero, poco noto e molto affascinante, svoltosi durante le Olimpiadi di Monaco del 1936 nelle quali la nazionale tedesca, allora molto forte in questo sport, schierò la propria squadra comprensiva di Rudi Ball, il capitano, attaccante fortissimo ma ebreo. Ci furono delle difficoltà che furono superate secondo due prospettive storiche leggermente diverse. Arnd Krüger, ex atleta e storico sportivo, in Die Olympischen Spiele 1936 und die Weltmeinung riporta che “poiché secondo le leggi di Norimberga era ebreo solo per parte di un genitore, poteva giocare nella nazionale tedesca senza violare la politica nazista”. La seconda tesi riferisce invece di una prima intenzione di sospensione per il giovane Rudi e del conseguente ammutinamento del suo miglior amico, Gustave Jaenecke, che si rifiutò di giocare senza di lui. Il resto della squadra li sostenne e alla fine il giovane fu riammesso in squadra: giocò tutte le partite, segnando diversi goal e portando la nazionale al bronzo. 

Renato Ghezzi, ingegnere informatico, che ha dato alla propria vita l’avventurosa svolta della scrittura, sceglie questa seconda versione, e facendone il nucleo centrale del romanzo, tesse una storia bellissima che inizia ai giorni nostri, negli Stati Uniti, per finire con un flashback, in Germania, nel 1975.

Lettere e diari saranno fondamentali per sciogliere l’intreccio della trama nella quale si trova avviluppato, Richard Bower, poco più che ventenne (stessa età di Rudi Ball nell 1936), appassionato di hockey e studente in fisioterapia alla Boston University. Quando il sipario si apre sulla storia, sta giocando una partita dando, come sempre il massimo di sè, per vincere, per dimostrare soprattutto a suo padre quanto sia forte. Sugli spalti, la sua ragazza, Kate, il fratello Bob e due posti vuoti. Quelli per i suoi genitori che si ostina ad invitare alle partite ma che non ha la soddisfazione di vedere mai tra gli spettatori. C’è un’ostilità lontana e a lui del tutto inspiegabile del padre verso la sua scelta di praticare l’hockey e in generale verso questo sport. Dovrà ripercorrere un cammino a ritroso nella storia della propria famiglia per scoprirne le motivazioni.

Dopo una partita disastrosa nella quale proprio allo scopo di dare il massimo di sè (n.b. sè, non squadra), nel tentativo di fare tutto da solo, finisce per immaginarsi di essere davvero da solo, l’orgoglio gli annebbia il senso del gioco, dei ruoli, della squadra e, scavalcando i compagni, finisce per fare un autogol nel tentativo maldestro di salvare in extremis il proprio portiere. Nell’esclusività della propria prospettiva egocentrica, aveva davvero percepito un isolamento dai compagni, ma era lui che si era isolato. La squadra era al suo posto, lui l’ha ignorata e prevaricata. 

E’ un episodio chiave perchè scatena una serie di reazioni ed eventi. Per una settimana si chiude in casa, in se stesso, nella propria ostinata frustrazione. Solo dopo qualche confronto con Kate e Derek, il migliore amico, si rende conto della completa distorsione della realtà che il suo orgoglio gli ha provocato, senza immaginare che ben altre distorsioni della realtà lo stanno aspettando. Quando era sul punto di accettare la proposta di Derek, l’elemento forse meno dotato della squadra, di entrare con lui in una squadra di categoria inferiore, una lettera da Stoccarda gli apre uno scenario di possibilità del tutto inattese. Ma anche di dubbi. E di sospetti. La lettera lo invita ad entrare in squadra e, date le sue origini tedesche, anche in nazionale. Origini tedesche? Che lui sappia la sua famiglia paterna è americana da generazioni, praticamente da sempre. Così gli hanno sempre detto. Ma il dubbio si è insinuato e comincia a roderlo.

La trama si sviluppa con ritmo incalzante dall’intreccio della vita personale e sportiva di Richard con la vita passata della sua famiglia. A Toronto, su consiglio del suo allenatore dell’università, si reca nel museo delle grandi glorie dell’Hockey, insieme a Barbara, l’odiata reporter della pagina sportiva del giornale dell’università, da sempre invisa a tutti per la sua disinibita e distaccata freddezza professionale che le faceva scrivere senza mezzi termini, senza filtri, senza pietà la semplice realtà e che tante volte aveva criticato Richard vedendo con occhio femminile sensibile non solo alle qualità tecniche ma anche alle disposizioni d’animo, quanto il narcisismo sportivo lo portasse a non dare di sé tutto quello che davvero avrebbe potuto dare.

In quel museo, è Barbara a trovarsi di fronte ad una foto rivelatrice. Insieme cominciano ad indagare. Ma è solo in Germania che può trapelare la verità permettendo a Richard di ricostruire la vera realtà ante-distorsione e completare quell’opera di pulizia della visione della vita che aveva avuto fino a quel momento. La verità gli toglie la patina di orgoglio e estraneazione facendogli comprendere l’importanza del lavoro di squadra, dove anche il non giocare è un modo di giocare. La stessa patina di freddezza e rancore che dovrebbe essere deposta da ogni popolo, non solo perché “in guerra nessuno è innocente”, ma anche e soprattutto perché, come gli dice l’allenatore della squadra tedesca, “non possiamo restare inchiodati ai giudizi dei nostri padri. I tempi sono cambiati. Tu non hai bombardato Stoccarda, io non ho mandto nessuno nei lager. Siamo persone diverse, valutiamoci per quello che siamo e non per quello che hanno fatto i nostri avi”.