Tre uomini in bicicletta, di Paolo Rumiz

Tre uomini in bicicletta, di Paolo Rumiz

Con una prosa scorrevole ma non semplicistica, un lessico raffinato, una sintassi classica ed espressioni moderne, il libro raccoglie una serie di articoli usciti in successione sulla Repubblica che raccontano il viaggio compiuto dall’autore nel luglio 2001 attraverso i Balcani, nel percorso chiamato “La grande diagonale” da Trieste ad Istanbul. La particolarità del viaggio è il mezzo utilizzato e la compagnia: in bicicletta insieme al vignettista Francesco Altan e al professor Emilio Rigatti, grande ciclista a tempo perso: “Infinite sono le esperienze alternative che la bici riesce a sintetizzare. C’è il viaggio come leggerezza, come nomadismo esistenziale ed eliminazione del superfluo…ci sono la lentezza e la memoria…la fuga e la solitudine negli elementi…o il viaggio come introspezione” e di ognuna di queste esperienza cita uno scrittore: Marco Aime, Giulio Mozzi, Paolo Rizzi, Werner Herzog e Peter Handke.

Porto a spasso il bambino che è in me” è l’inno di partenza dei tre amici: in una divertente cover di “Tre uomini in barca”, anche loro partono per scrollarsi di dosso stress, malessere, anni di troppo. Altan e Rumiz non sono allenati come Rigatti ma hanno dalla loro un entusiasmo incomparabile. Sicuri del loro obiettivo, non si lasciano toccare dai commenti sorpresi, sarcastici o pessimisti di coloro ai quali dicono dove sono diretti. Si lasciano invece ‘coccolare’ dagli incontri lungo la strada con persone semplici con le quali dividono uno spuntino, una cena, una birra (il premio agognato di ogni tappa!) o qualche scambio di frasi.

Ogni tappa è preceduta da una cartina a colori sul quale è segnato il percorso e da un commento tecnico di Rigatti: distanza percorsa, livello di difficoltà, tempo impiegato, velocità media, caratteristiche del percorso (pendenza, stato della strada, ecc.). Poi, si apre il capitolo vero e proprio, scoppiettante del migliore humour di Rumiz e decorato con le divertenti vignette di Altan.

Ne esce un diario pregevole per forma e sostanza. Il ‘pretesto’ del diario è infatti usato per dar voce e immagine ad una terra appena uscita da un conflitto civile che l’ha profondamente provata: “Inizia il ritratto di un paese che ha dissipato se stesso, è come se su tutto fossero piovute macerie: non per le bombe della Nato, ma per l fallimento dell’autogestione titoista”. Ma su quelle macerie, a testimoniare la voglia di ricominciare, c’è “un cielo pieno di rondini. È stata sempre la guerra a chiamare le rondini. Sono venute a decine di migliaia ad abitare uno per uno i buchi fatti dai kalashnikov nei muri. Una rondine per ogni bossolo, che rivincita della vita!”.

E Rumiz cerca di dimostrare l’inutilità di quel conflitto senza cadere in denunce politiche ma con una strategia molto più raffinata: quella di dare valore e bellezza a ciascuna delle culture che abitano quelle terre, rivelando il fascino peculiare di ciascuna di esse. Serbi, croati, turchi, arabi, sloveni, albanesi, bulgari hanno ciascuno un proprio tesoro da salvaguardare e trasmettere. Sono diversi, spesso opposti, ma il loro patrimonio culturale è comunque importante, per tutti. Abbattere la popolazione nemica è togliere qualcosa all’umanità.

Anche il territorio è speciale, nelle sue varie sfaccettature: pianure immense, alvei fluviali che hanno cambiato il loro corso (“è una sponda dimenticata dal Danubio nel suo girovagare dentro il mare pannonico. Qui migra tutto, anche i fiumi. Lasciano i segni dei vecchi meandri come un’anaconda sulla sabbia”), fiumi-strade, come nell’antichità, che tracciano confini e accompagnano percorsi. Città piccole e grandi, di pastori o di traffico occidentale, ciascuna con l’architettura propria della cultura nella quale è costruita

Il viaggio è stato, come per i tre uomini  di Jerome, un percorso di purificazione fisica e mentale, uno strappo alla routine convenzionale. Le tracce che esso ha lasciato vanno ben oltre i chili in meno e l’abbronzatura, sono tracce di consapevolezza delle proprie potenzialità, del valore di terre e genti viste dall’interno e non dalle immagini riprodotte, ben selezionate, dai media. Rumiz più volte parla di scoperte, rivelazioni, sorprese: “La bici, questa nostra macchina dei pensieri che penetra nel segreto dei mondi e smantella i luoghi comuni, ci ha fatto attraversare in un giorno solitudini claustrali bizantine, desertificazioni industriali sovietiche, richiami di frescura mediterranea, infuocati valichi messicani, solitudini alpestri incontaminate, un Islam recondito e già anatolico”.