Oceano mare, di Alessandro Baricco
Come un sipario che si apre su una scena poco illuminata, il tema del romanzo si profila a poco a poco, calato in una realtà che si stenta a riconoscere attuale, evocando piuttosto ambientazioni fiabesche.
Ci sono più personaggi, ciascuno con un proprio dolore, una propria difficoltà, che si incontrano in una mistica Locanda Almayer, vicino alla città di Quartel, sulle rive del mare. L’autore non fornisce dettagli ulteriori, ce la si può immaginare ovunque, ma sicuramente è sul mare, perchè il mare è il vero protagonista della storia.
Il mare è l’elemento di riferimento per tutti gli avventori della locanda: dalla giovane Elisewin, accompagnata dal fedele Padre Pluche, per guarire dalla sua malattia psicologica, la malattia della paura dell’ignoto e del futuro, alla eterea madame Ann Deverià, qui giunta per guarire dalla malattia dell’adulterio, al professore Bartleboom, che sta scrivendo l’Enciclopedia dei Limiti ed è venuto qui, a cercare il limite, la fine del mare (e forse anche a cercare quella donna amata, che lui spera esistere solo per lui e a lui destinata, alla quale scrive lettere su lettere, nell’attesa di incontrarla davvero e consegnargliele tutte); dall’uomo senza nome e senza volto che ha paura e che non esce mai dalla sua stanza, se non alla fine di tutte le storie, quando gli altri personaggi hanno trovato il loro equilibrio grazie al confronto con il mare, all’evanscente pittore Michel Plasson che invece sta disperatamente tentando di dipingere il mare e non ci riesce perchè, essendo stato prevalentemente un pittore di ritratti, abituato a partire dal dettaglio degli occhi di una persona, qui non riesce a trovare l’inizio del mare. È l’opposto di Bartleboom che ne cerca l’inizio.
Alla Locanda Almayer, dove trapela una sofferenza profonda (“I quadri bianchi di quel pittore, le misurazioni infinite del professor Bartleboom…e poi quella signora che è bellissima eppure è infelice e sola, per non parlare di quell’uomo che aspetta…quel che fa è aspettare Dio sa cosa o chi…E’ tutto…è tutto fermo, un passo al di qua delle cose. Non c’è niente di reale“), alla fine, in una notte d’incubo, di fronte allo spumeggiare del mare, come fosse lo specchio della verità, ognuno scioglie l’enigma che soffocava la sua vita, la sua serenità.
Per Baricco, la realtà è sempre negativa, è l’antitesi del sogno (come emergeva anche in Castelli di rabbia). Gli uomini si costruiscono sogni di felicità e la realtà sbatte in faccia loro, sottoforma di verità, disperazione e dolore: “La verità si concede solo all’orrore, e per raggiungerla abbiamo dovuto passare da questo inferno, per vederla abbiamo dovuto diventare belve feroci, per stanarla abbiamo dovuto spezzarci di dolore. Perché? Perché le cose diventano vere solo nella morsa della disperazione”
Di grande effetto emotivo è il registro linguistico originalissimo adottato da Baricco: frasi che rotolano una dopo l’altra, puntini di sospensione che esprimono sospiri, esitazioni, narrazioni che sembrano provenire dai pensieri e dalle emozioni dei protagonisti e non dalla penna di uno scrittore esterno, sguardi, immagini di potenza straordinaria, suoni, profumi, rumori e silenzi, attese, paure, dolore e disperazione. Baricco riesce davvero a trasmettere tutto questo in modo del tutto immediato e sensibile, la parola diventa per lui uno strumento di comunicazione molto più ampia di quello che è normalmente, perchè tocca il lettore non solo attraverso gli occhi, ma soprattutto attraverso l’emozione ed il cuore, quasi senza passare per il filtro della lettura razionale, ma arrivando direttamente alle sue emozioni profonde, alle sue stesse paure e speranze, per consegnargli una chiave da lui suggerita per dare un senso alle sue attese più recondite.