Non ci resta che scappare, di Francesco Palmisano (Giraldi Editore)
Uno dei più amari sfoghi sulla degenerazione morale e di costume dei nostri tempi. Con un registro spietatamente sarcastico, Palmisano denuncia una società dove la corruzione non è contenuta dagli argini di un’etica sicura, ma li sfonda e dilaga travolgendo anche le persone più comuni, come il protagonista del romanzo, Andrea. Una laurea in medicina e nessun lavoro, nessun riconoscimento di un valore per gli studi compiuti, per il potenziale apporto di utilità sociale. Anzi, lo squallore da cui si trova circondato lo svilisce a tal punto che quando Alice, una ragazza conosciuta in ospedale dove fa l’infermiera, gli suggerisce un metodo per ottenere almeno un posto a tempo determinato, lascia che i primi scrupoli che la sua coscienza tradizionalmente educata gli fa presentire di primo acchito, si dissolvano in un istante. Si tratta di far picchiare con violenza uno dei medici dell’ospedale, in modo da costringerlo ad una lunga degenza e farsi nominare suo sostituto. E quando Andrea chiede come poter essere certo che sia proprio lui il prescelto per l’incarico, Alice gli confida che ha le conoscenze per far passare il suo nome in testa ai candidati. Tutto possibile, tutto organizzato, tutto illegale. Ma Andrea accetta. Dopo un anno – che ci ripropone in flashback nel secondo capitolo – trascorso a lavorare al Burger King per poter soprovvivere, a non permettersi di denunciare la morte del padre che preferisce tener rinchiuso in un congelatore in cantina, in modo da continuare a perceprine la pensione – ha lasciato cadere le proprie inibizioni etiche.
Le persone che attraversano la sua vita non fanno che ravvivare il colore noir sbiadito di quella generazione priva di ogni valore: da Fabione, il suo coinquilino, grasso, sporco, maleodorante, depravato, che vive tra il frigorifero di cui fagocita indifferentemente qualsiasi contenuto ed il PC connesso a tutti i possibili siti pornografici esistenti; a Giuda, l’appassionato testimone di una religione gesuitica tutta sua, prodotta dalla lettura dei vangeli apocrifi usati come chiave di lettura e condanna della società contemporanea, avida e corrotta; alla stessa Alice. Ma con lei è diverso. Andrea se scopre innamorato e s’illude che lei possa essere un’ancora di salvezza in una società che lo disgusta. Scoprirà invece che di quella società è parte anche lei. La pagina nella quale i due si confrontano, in un dialogo dilatato da momenti di silenzio, è una delle più belle del romanzo: “Secondo te basta non rispondere alle mie telefonate per farmi uscire dalla tua vita?” le domanda lui e lei “Un’idea sbagliata può mettere radici e crescere”, ma lui sostiene il suo sguardo l’intima, delicata sfida che lei sembra comunicargli “Un’idea sbagliata non mi spaventa”. La passione che lo travolge gli apre un angolo di visuale nuovo, che prima non era riuscito a cogliere, quello delle opportunità che anche persone così lontane da lui come Fabione o Giuda gli possono offrire. “Il vero male è il piacere che si prova nel farlo” gli dice Giuda, con uno straordinario effetto discriminante fra chi gode del male fatto e chi lo soffre anche quando lo commette.