Gli invisibili, di Valerio Varesi (Mondadori)
“Ci sono persone che cercano la clandestinità e altre che la ottengono senza intenzione. Col silenzio, la solitudine e la sfuggente discrezione delle creature notturne. La vita è un lavoro a maglia che ti intreccia col tutto. Ma loro sono un punto fallato che si allarga sciogliendo la trama fino a rendere impossibile ricongiungere gli orli“.
Sono loro gli Invisibili di Valerio Varesi, ai quali attraverso la sensibile figura del commissario Soneri, viene data voce e riconoscimento umano. Un atto di profonda umiltà e conforto per chi ha sofferto senza sbandierarlo, per chi non ha voluto o potuto o saputo dare visibilità alla propria angoscia e chiedere aiuto. L’aiuto a questo sottostrato di umanità ignota viene offerto con questo toccante romanzo.
Si apre il sipario su una scena di compianto che riecheggia sculture protocristiane: il commissario è chino su di un corpo, del quale non si conosce l’identità e che pertanto, scaduti i tre anni dal ritrovamento prescritti dalla legge senza che nessuno lo abbia riconosciuto, deve essere sepolto senza un nome, con un anonimo codice alfanumerico. Soneri non riesce ad accettarlo. C’è qualcosa che lo sconvolge in questo, un torto postumo che nessuno si merita, a prescindere da quella che possa essere stata la sua storia. Decide così di fare il possibile per collocare quel corpo in una posizione precisa della scacchiera sociale: “Il nome è importante, non averlo è come non essere mai esistiti. Invece, conservarlo, anche senza essere più quelli di prima, anche scomparendo, significa esserci stati. Anche per chi pensa che con la morte tutto finisca. La nostra commediola in questo mondo, un titolo deve pur averlo, no?”
Ancora una volta, sentendosi legato dalle maglie della formalità burocratica imperversante in questura che, “ai piani alti, era una un palco delle vanità dove andava in scena la rappresentazione del potere”, preferisce svestirsene ed agire in borghese prendendo una settimana di ferie; più di un’indagine ha condotto Soneri nelle sue ‘ferie’, quasi a voler significare che la spinta alla soluzione di casi umani gli appartiene come uomo e non come poliziotto. Ed in questo caso sente una spinta amara e forte a svelare il mistero dell’uomo che nessuno è andato a cercare. Sente un dovere primordiale, come se si trattasse di “dare un senso al suo esistere. Al suo e a quello di tutti. Che poi ciò passasse per un’indagine di polizia non cambiava nulla. La vita di ciascun uomo era un’indagine e si concludeva sempre con un giudizio”.
Ancora una volta è la nebbia a costituire lo sfondo della sua indagine, simbolo dell’incapacità di vedere le cose che si nascondono dietro uno strato superficiale di indifferenza, ma anche della calma e del conforto che il suo silenzio procura (“il cuscino molle su cui adagiare i pensieri”). Soneri ama la nebbia perchè sente che gli appartiene e di appartenerle nella sua dedizione alla ricerca di una luce oltre la sua cortina. E forse, anche perché contiene tutto ciò che ha di caro e che altrimenti si perderebbe nell’avanzare della vita: “Una corrispondenza fatta di suggestioni, fotogrammi di vita, acuti sentimenti scaturiti improvvisamente come agguati, dolci di nostalgia e dolorosi come coltellate”.
Il paese dove concentra la ricerca di notizie sullo sconosciuto lo accoglie con la semplicità dei suoi abitanti tipici, avventori quotidiani che rappresentano una società schietta, discreta, capace di osservare senza ostentazione, di ascoltare senza intromettersi, di aspettare. Una voce emerge solista dal coro dei paesani, quella di Casimiro, il vecchio pescatore che probabilmente non si è mai allontanato dalle rive del fiume di più di qualche chilometro. Casimiro, soprannominato “il Matto” più per la sua stravaganza che per mancanza di lucidità, è il simbolo di un popolo che non esiste più, il popolo dei fiumi, che conosceva le abitudini, i rischi, le opportunità di questi elementi naturali primordiali da sempre fonte di vita ma anche di rovina. Conosce il Po sul quale è nato e sul quale vive da sempre, sa quanto può crescere ed esondare con le piogge, sa quando va temuto e quando può essere sfruttato e ne diventa per Soneri la voce profonda da interrogare per ricostruire la storia di quell’uomo ripescato anni prima dalle sue acque.
“Ancora una volta” ricorre spesso in questa recensione, perché ogni scrittore non può percorrere una strada narrativa senza lasciare orme riconoscibili e ricalcarle successivamente. E le orme di Varesi sono il canto di terre la cui peculiarità è data da elementi ostici da amare, come la nebbia, l’umidità, il senso di fatiscenza che caratterizzano l’ambiente padano; le sue orme sono la profonda empatia per i drammi umani che si nascondono dietro vite buttate via come vittime o come colpevoli, ma sono anche la voglia di sorridere di sè e della vita stessa, attraverso il bellissimo rapporto fra Soneri e la compagna Angela, ironico, disinvolto, sincero e devoto; le sue orme sono ancora il richiamo ad un animismo oggi del tutto dimenticato quando non disprezzato, un senso di misticismo primitivo nel quale la natura è ancora regina della vita, dominante con le sue forze. Il Po che, con le sue piene risponde come ha fatto per millenni ai richiami delle piogge, “custodisce misericordiosamente maledizioni, minacce, vecchi delitti, sacrilegi”, “decide dove portare ciò che si prende” ma “restituisce sempre tutto anche a chi non sa cosa farsene”, è la divinità potente di un ecosistema che sta morendo e che Varesi vuole preservare nella coscienza della nostra generazione, dando al suo protagonista la capacità e la volontà di rispettare coloro che di quell’ecosistema primitivo, sono gli ultimi rappresentanti.