Bologna all’Inferno, di Massimo Fagnoni (Giraldi)

Bologna all’Inferno, di Massimo Fagnoni (Giraldi)

Un particolare inatteso in una cappella di San Petronio ha ispirato questo romanzo di Massimo Fagnoni nel quale compare per la prima volta la figura tipizzata e subito empatizzante del maresciallo Greco, single irremovibile, la cui famiglia è la sua squadra, “l’unico luogo dove tornare da tutti i suoi esperimenti esistenziali”, convinto “che ogni mestiere di contatto come questo è una forma d’arte che solo i solitari come lui possono veramente apprezzare”. In realtà, Greco, senza che il suo profilo protagonista ne soffra per il carisma che lo caratterizza, lavora per lo più dietro le quinte, perché le fila dell’indagine vengono tirate dalle avanguardie non solo dei Carabinieri ma anche della Polizia Municipale e Statale. I tre corpi si affiancano al di là delle differenze di sostanza e di forma che li separano perché la minaccia che incombe su Bologna in un’estate calda e afosa oltre la norma è spaventosa.

Il particolare è la rappresentazione della pena inflitta a Maometto nell’Inferno della Cappella Bolognini. Un affronto per gli integralisti islamici tanto grave da far ordire una strage proprio nell’interno della Chiesa.

Ma questa non è la sola trama oscura. Ce n’è un’altra affidata ad un killer internazionale di origini indiane cresciuto ed educato in Inghilterra. Quando la sua vita ha incrociato quella di una potente organizzazione criminale, si è lasciato formare come implacabile professionista della cieca obbedienza alla missione: la sua voce, nella trama del romanzo, è la cruda constatazione di come si possa diventare apparentemente potenti quando non si prova alcun sentimento. Ride delle debolezze umane ma, in fondo, ride di se stesso, perché sa che nella padronanza completa di sé, è davvero più forte, ma anche più vuoto. Come Achille che ha scelto una vita breve e gloriosa, Ariman ha scelto di disumanizzarsi. Anche la sua missione è una strage, di natura non religiosa ma politica; un attacco esplosivo micidiale alla Festa de L’Unità, la storica manifestazione che si svolge a Bologna in settembre e che, al di là delle sue origini politico-sociali, ha acquistato nel tempo una portata culturale ben più ampia. Bellissima la pagina che Fagnoni dedica a questa festa vista attraverso gli occhi di Ariman che la visita prima di fare il colpo: “Punto di aggregazione, momento di incontro, luogo in cui si mangia, si balla, ci si innamora, si ruba, si gioca. La festa è un concentrato di emozioni e grassi saturi, è un delirio di specialità regionali ed etniche, un’esagerazione di musiche, intrattenimenti, bar, alcolici, dolci zuccheri filati e libri, fumetti, fotografie, storie, dibattiti, spesso disertati, su tutti gli argomenti del mondo, dal problema delle buche nel quartiere Barca alla nascita del partito Democratico, alla crisi dei valori nella civiltà occidentale (…). Il festival di settembre è questo per i bolognesi, il saluto all’estate, il momento dell’orgia e della riflessione, l’ultima festa prima dell’autunno e dell’inverno (…) Ogni stand una storia, fatta di bandiere, immagini, video, fotografie, colori. Ogni storia ti chiama, t’invita ad entrare per spiegarti la bontà del suo contenuto, la necessità della tua attenzione (…). Associazioni, volontariato, consumismo, pubblicità, cibo, oggetti e ancora oggetti. Una confusione di significati, un pluralismo di voci, motivazioni mescolate, senza un reale filo conduttore, se non quello di stare tutti insieme dentro lo stesso contenitore”.

Tra i due attentati, potenziali eccidi di massa, si profila una trama più umile, quasi patetica, quella che coinvolge gli strati più dimessi della popolazione araba che ha tentato in qualche modo di integrarsi nel contesto sociale italiano. Farim e il nipote Mohammed vengono letteralmente usati come specchio per le allodole, per distogliere l’attenzione delle autorità di difesa dal vero obiettivo. Si invoca la loro fede ma soprattutto la loro disperazione; l’accettazione di morire per la causa è in loro fortemente condizionata dall’abbruttimento dell’esistenza alla quale avevano cercato un miglioramento sul piano economico nell’emigrazione perdendo però tutto quello che avevano in patria sul piano affettivo.

Come la festa dell’Unità era stata vita dagli occhi lontani ed ironici di Ariman, lo scontro interculturale fra i bolognesi e gli immigrati è visto dalla silente sensibilità di Michele, della Polizia di Stato: “Quale problema può portare un qualsiasi straniero nel nostro sistema? Quale variabile rappresentano queste nuove entità che hanno idee diverse, diverse religioni e una differente cognizione di vita e di morte? (…) Persone senza paura o con paure diverse che si muovono ad un ritmo che non è il suo e che vivono, muoiono, uccidono seguendo motivazioni distanti dalle sue e da quelle degli abitanti di questa parte del mondo”.

L’apparato sociale di questo romanzo è articolatissimo: tanti i protagonisti che l’autore approfondisce nell’analisi della loro personalità più profonda, lasciando emergere in tutti un languore esistenziale, un senso di rassegnato indulgere in “memorie distruttive” dalle quali avrebbero invece dovuto allontanarsi “fosse solo perché conosciute e inutilizzabili”.

Giulia, l’unica figura femminile dei protagonisti, ne è un esempio, il più delicato, il più commovente: trentenne, dopo il tradimento del fidanzato, aveva congelato la propria giovinezza nella rinuncia, “senza un uomo, senza una vita sociale, a guardare la città procedere sotto il davanzale lasciando scorrere il proprio corpo da estate ad autunno”, fino all’incontro fatale con Ariman che la saprà risvegliare.

Santucci, della Polizia di Stato, coordina le indagini e le azioni difensive, anticipa le mosse degli avversari, intuisce qualcosa di malefico nell’aitante personaggio che le riprese della Festa casualmente intercettano. La sua esperienza, la sua sensibilità, l’intuito, l’attenzione, tutto l’apparato della propria personalità che ha messo al servizio della giustizia, sono in allerta: “Vede scorrere il suo personale schedario mentale che negli anni ha composto nella testa (…) un collaudato repertorio di comparse che si muovono nel girone dantesco della marginalità estremista”. Santucci appartiene a quel genere di persone che hanno il potere di percepire il dolore altrui: “una percezione del dolore che nessuno ti insegna, o ce l’hai o non ce l’hai. Ma se riesci a sentire il dolore, la profonda solitudine dei sopravvissuti, la desolazione di chi ha perso una persona che era tutto, se hai questa dote se nel posto giusto per cercare di capire. Se capisci cosa si nasconde dietro al dolore a volte puoi anche scoprire chi lo ha provocato, chi ha deciso di interrompere deliberatamente una vita”.

Tutti i protagonisti sono curati nei dettagli della loro storia. Gli agenti, Michele collega di Santucci, Marco e Ferroni della Polizia Municipale, pur parte di un corpo speciale, sono i singoli contro la società. Singoli individui, forti di una personalità onesta e generosa, senza alcun secondo fine ambizioso, agiscono secondo il dovere e il compito che si sono scelti.

Fagnoni incrocia elementi del romanzo di spionaggio con elementi del giallo, creando un intreccio avvincente su uno sfondo bellissimo e sconvolgente. Ne nasce un noir indimenticabile. Un noir bolognese, intriso di pietà e sconforto per la devastazione sociale che ha colpito negli ultimi decenni la città emiliana: pagine quasi impietose nella descrizione di una lotta per la sopravvivenza della nostra città che ha cercato di crescere nonostante tutti gli attacchi socio-politici che l’hanno devastata negli anni ’70 e ’80.

I bassifondi dei quartieri più ingestibili per l’ammasso degli immigrati che non riescono ad integrarsi, il sudiciume, l’abbandono, la violenza restituiscono un volto della città cupo e disumanizzato.

Registro narrativo perfetto per la trama e l’ambientazione: le frasi quasi sempre brevi, principali senza subordinate, lo stesso soggetto ripetuto ad ogni inizio di frase, i continui punti e a capo, generano un effetto da messaggio telegrafico;  essenziale, rapido, senza alcun filtro edulcorante. Le immagini, invece, sono vivide, intense, implacabili, come l’affresco che ha ispirato la storia.