Ibi, di Diego Matteucci (Delos Digital)

Ibi, di Diego Matteucci (Delos Digital)

In questo romanzo breve l’autore non ha fatto mancare nulla degli ingredienti del “fratello maggiore”: il delitto, l’indagine, lo spiazzamento del lettore e l’introspezione psicologica nei personaggi. Alla Conrad, la trama gialla,  che si svolge nella primavera del 1986, viene rievocata, in una cornice di trent’anni dopo, in una conversazione al bar Jolly di Ferrara, fra l’agente in pensione Ferruccio Pancaldi detto Zeno e il giovane studente Gianmarco, che lo ha cercato nell’ambito di una ricerca su un caso di quell’anno, del quale si era occupato l’ispettore Luca Giatti, allora superiore di Zeno. Gianmarco frequenta il corso di Tecnica della riabilitazione psichiatrica e quel caso presentava per lui un aspetto particolarmente interessante: l’alibi del presunto colpevole. La collocazione temporale del giallo, la primavera del 1986 offre lo spunto all’autore per collegarsi ad eventi di portata mondiale (i mondiali in Messico tanto attesi dagli Italiani dopo la vittoria dell’82 che furono invece i mondiali dell’Argentina e di Maradona col suo famoso gol di mano segnato all’Inghilterra e soprattutto il disastro di Chernobyl, la cui gravità sarebbe stata evidente solo tempo dopo), di fronte ai quali, le vicende dei singoli potrebbero risultare futili e sfuggenti. Eppure, Zeno si è portato dentro per tutti quegli anni un senso di giustizia non resa, di rimorso per un oblìo sceso su persone che avevano dato la vita o quasi per un senso del dovere che li travalicava.

Il delitto, l’uccisione di un semplice operaio, Marco Liberati, presenta da subito un elemento sconcertante. Una vicina di casa dichiara di conoscere l’identità dell’assassino che le si è palesato dopo aver compiuto l’atto criminoso. Uscito dall’appartamento della vittima, sorpreso dalla donna che stava guardando fuori dalla finestra, invece di fuggire garantito nell’anonimato dal passamontagna che indossava, lo ha sollevato a metà viso perchè lei potesse leggergli il labiale mentre diceva: “Ho ucciso quel farabutto di Marco. Sì, l’ho ucciso io. Il mio nome è Filippo Orsini”. 

Sconcertato dalla deposizione, Giatti non può che far arrestare quell’Orsini che però si dichiara innocente; i proprietari di un agriturismo confermano il suo alibi dichiarando che la sera dell’omicidio, Orsini e loro ospite. Eppure, quell’alibi, non è tale veramente. E’ piuttosto un ibi. L’autore ha giocato in modo originale ed intrigante con l’etimologia della parola: ali+ibi, non lì, altrove che, in questo caso, è l’esatto contrario: ibi: non altrove, ma lì, esattamente al centro della ribalta, per un istinto irresistibile di egocentrismo narcisistico.

Poliziesco tradizionale ma nello stesso tempo moderno noir per l’importanza data alla lacerazione psicoemotiva che è all’origine del crimine: “Ascoltare, parlare, conoscersi: al di là di qualsiasi studio, saggio o tecnologia, quelle tre semplici parole restavano il modo più efficace per cercare di capire l’animo umano”.