Tra una birra e una storia

Tra una birra e una storia

Paolo Ciampi è un grande scrittore di storie. E questa raccolta, già dal titolo mette in evidenza l’aspetto caratteristico di una storia, quella di essere raccontata in un circuito intimo, come un tempo erano le stalle o le case dove, la sera, la famiglia si riuniva intorno al fuoco o anche le cene di gala, fatte per durare e fornire stimolo alla narrazione di episodi, aneddoti, pettegolezzi, da parte dei commensali. Qui, Ciampi, sceglie come ambientazione quella di un bar o un’osteria davanti ad un bicchiere di birra. E’ già il colore dorato, la morbida e frizzante spuma, il lungo boccale trasparente, a rappresentare il seme simbolico che fa germogliare le storie.

“Avete saputo di Felice?” è l’incipit. Classico. L’incipit di un in incontro estemporaneo fra persone che si conoscono, che hanno in comune qualcosa e qualcuno. Felice. E Felice sarà il protagonista di questa prima storia, Se si prende insieme un’altra birra. Che sembra preludere ad un esodo negativo, visto che se ne parla sui giornali. Ma di quel Felice di cui il giornale dà poche notizie è evidente che qualcuno che lo conosce sa molto di più e vuole raccontarlo, perchè “sapete, aveva anche lui un sogno da realizzare”. E come lui, lo aveva avuto qualche secolo prima, un altro Felice, Felice Brancacci, un mercante di seta vissuto nel ‘300 che aveva commissionato una cappella a due pittori che si chiamavano entrambi Tommaso, ma che sarebbero passati alla storia come Masaccio e Masolino. Le due storie di Felice del ‘900 e Felice del ‘300 si intrecciano così in un fine e toccante racconto che segue il filo rosso dell’ambizione umana nel tempo: “Affari da mercante e idee da signore”. Allora come oggi. Sogni che costano, che pesano, spesso che schiacciano. 

Un omaggio all’antologia di Spoon River, capolavoro americano di Edgar Lee Masters è il toccante racconto Florence Spoon River nel quale come l’illustre predecessore, Ciampi va alla ricerca di storie dove si potrebbe pensare che non ve ne sia più nessuna da raccontare: nel Cimitero degli Inglesi, concesso dal Granduca di Toscana nel 1827 a degli Svizzeri per seppellire stranieri appartenenti a svariate nazionalità, “l’ultima casa per chi è venuto da fuori”. E lì, in un luogo ameno che segue i ritmi delle stagioni, di storie ce ne sono davvero tante, che nel suo afflato di grande umanità, l’autore desidera tramandare, non lasciarle andar perdute.

È quello che fa anche – e questa volta non tace la denuncia per il silenzio col quale si è volutamente ricoperta una storia terribile – con il racconto vero La gavetta in fondo al mare. Un racconto vero perché è la vera, drammatica, vicenda di un piroscafo, l’Oria, che nel ’43, salpato da Rodi con 4000 militari a bordo che avrebbero dovuto essere rimpatriati, affondò nell’Egeo. E di quei 4000 se ne salvò uno soltanto. 

Il racconto L’uomo che vendeva errori è un umoristico pretesto per riflettere sulla nostra fallibilità e sul perfezionismo dittatore che vorrebbe punire con rimorso e imbarazzo ognuno di quegli inciampi. Una rivistazione del concetto di errore che libera da quel rigido regime dittatoriale, perché ci sono degli errori “che fanno bene, che cambiano la vita”. È interessante. Ci abbiamo mai riflettuto? Abbiamo mai ringraziato per un errore commesso? Il tutto è condito di surrealtà e bonaria ironia.

È la grande, straordinaria ammirevole qualità di Paolo Ciampi, quella di sapere sì raccontare in modo incantevole storie semplici e grandi, tristi e allegre, famose o sconosciute, ma, ancora prima, di saperle scovare dove nessun altro sarebbe andato a cercarle, di intravvedere dietro un oggetto, una parola, un mondo intero, quello delle persone: “sono entrato in punta di piedi dentro questa storia e non mi sono sentito un intruso”.