Il fiume delle nebbie, di Valerio Varesi (Frassinelli)
Quarto romanzo dedicato al Commissario Soneri, figura modesta, silenziosa, schiva, dalla grande capacità di empatizzare con il contesto sociale nel quale i casi che gli capitano lo coinvolgono: percepisce il complesso di sofferenza, emotività, paura, disagio che accomuna vittime e colpevoli.
Questa suggestiva storia, dalle tinte grigie puntinate della nebbia padana, lo trascina sulle rive del Po, in una zona imprecisata che oscilla fra luoghi e tempo. Il tempo, cronologico e meteorologico, è regista e scenografo degli eventi. È il Po a dominare lo sfondo e la scena contemporaneamente. Gli altri protagonisti ne sono condizionati e influenzati. È il Po che sembra aver conservato le atmosfere e le emozioni di un tempo che ormai dovrebbe essere sfumato in ricordi lontani, ma che invece mantiene cristallizzata tutta la sua portata di angosce e dolore: “Il fiume prende e offre. Ti porta da vivere e ti toglie la vita. La stessa acqua che ti dà da mangiare, ti affama. Dal fiume parte e arriva gente e chi sta a riva non può scegliere”.
Il romanzo si apre in un club nautico dove, in una sera fredda e piovosa, sono riuniti alcuni vecchi amici: uno strano sentimento d’ansia li accomuna: la chiatta del vecchio Tonna, che trasporta graminacei su un percorso che da anni è sempre lo stesso, secondo ritmi di partenza e tappe costanti, improvvisamente è partita. È partita in una notte di piena del fiume che, dopo un lungo periodo di piogge, ha superato gli argini e invaso la golena. Varesi crea un’atmosfera di oscuri presagi dal silenzio dei tre amici, dalla loro attesa quasi tangibile, dagli sguardi che si scambiano e che sono eloquenti: il vecchio Tonna non sarebbe mai partito in una notte come questa.
Da quel momento, il giallo si snoda lungo l’alveo del fiume, seguendo la scia della chiatta nel suo solito percorso. Uno dopo l’altro vengono superati tutti i ponti e questo prova che alla guida di quella chiatta c’è qualcuno ma non è detto che sia il vecchio Tonna. Quei vecchi sanno bene che, con o senza pilota, la chiatta si fermerà per forza a Luzzara e sanno che a quel punto si svelerà il mistero. Aspettano. Senza fretta. Con la calma della consapevolezza che qualcosa di nuovo è successo. E quando la chiatta, finalmente, si arresta dove sapevano benissimo che si sarebbe arrestata, neppure quello che si scopre li sorprende: è deserta. Tonna non c’è. I tre amici sanno che il vecchio non sarebbe mai sceso da quella imbarcazione che era il suo unico mondo possibile. Sanno che deve esservi stato costretto con la forza. Sanno che difficilmente è ancora vivo.
Col capitolo seguente, la scena si sposta su Soneri, chiamato all’ospedale del paese, dove un vecchio è morto cadendo dalla terrazza. Suicido? Incidente? “Le stranezze lo incuriosivano sempre: giacimenti di informazioni”. La sensazione, per il commissario, che si tratti di omicidio, è impellente. E quando scopre che quel vecchio si chiamava Tonna ed era fratello del padrone della chiatta ne deduce immediatamente che né l’uno si è suicidato o caduto per caso, né l’altro è scomparso volutamente. Sa che entrambi sono morti. Lo sente, non lo può ancora provare, ma percepisce il legame del destino che, a volte, decide di rivelarsi inequivocabilmente: “Nella testa gli passavano nuvole senza contorno e senza geometria. Non si poteva costringerle in un perimetro e lui non ci aveva nemmeno mai provato. Gli pareva che fosse un compito impossibile come dar forma alla nebbia”.
Così sfidando un po’ il suo capo che lo vorrebbe ad indagare la morte di Decimo Tonna, accertata, decide invece di accertare la morte di Anteo Tonna. E sposta le sue indagini nel fiume, scoprendo che tra il fiume e gli uomini che lo vivono da sempre esiste una simbiosi primordiale, un patto antico che si basa sul rispetto reciproco per quello che si può dare e avere: “Ogni tanto il fiume torna a prendersi quel che è suo e noi glielo lasciamo. Non lo tiene mai per molto, il Po restituisce sempre tutto”. Il fremito dell’allusione a chi è scomparso è palpitante.
E dal fiume emerge la Storia, la storia con la S maiuscola, quella degli anni del sanguinoso conflitto politico della Resistenza, quella dei crimini perpetrati per principio o per vendetta, non per necessità. La storia di chi era da una parte e di chi era dall’altra, tutti vicendevolmente colpevoli e vittime, tutti con un torto subito da dimenticare o da vendicare, tutti gravati dell’accusa di aver compiuto violenze brutali e gratuiti. Per questo, sembrava che, in fondo, nessuno volesse sapere quello che era successo, come se tutti preferissero accettare qualcosa che “apparteneva a un passato che non si voleva né si sapeva ricordare. I vecchi per orrore, i giovani per ignoranza”. Soneri si muove lentamente, sentendo che la calma inesorabile del fiume si adatta perfettamente alla sua calma indottagli dagli eventi della vita. Per entrambi, lui e il fiume, la calma è copertura di drammi antichi e recenti. Perché nel fiume delle nebbie, sembra brancolare anche la Giustizia. Non è chiara, definita, tangibile. È vaga, evanescente, sfuggente. Una giustizia che non può agire perché forse non esiste nemmeno. Perché il male era così dilagato da avvolgere buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. Varesi ci propone un’umile e sofferta denuncia contro ogni tipo di rappresaglia, perché nel momento in cui qualcuno vuole vendicare se stesso o qualcun altro, la giustizia ammutolisce, non può più per natura dire la sua. La rappresaglia è sempre una vendetta ed introduce una catena di colpe ed espiazioni in cui si perde il capo originario. E Soneri rappresenta il tentativo sforzato di riportare quella giustizia nel suo alveo.
Il romanzo di Varesi è un dipinto dalle tinte sfumate sul grigio, dalle pennellate sottili e confuse che sembrano avere lo scopo opposto a quello degli Impressionisti: loro cercavano di dare l’idea del movimento, Varesi cerca di dare l’idea dell’immobilità. Le sue scene, ovattate, impalpabili, soffuse, sono come ricordi in via di dissolvimento, che hanno perso tangibilità, odore, suoni per rimanere fragili fotografie che però non smettono di fare soffrire: “Ci si illude di ricordare perché sembra che sia sempre tutto uguale, come il fiume che scorre incessante tra una piena e una magra. E invece si ricomincia dogni volta da capo. I ricordi valgono per due o tre generazioni, poi scompaiono e altri li sostituiscono”.