Ulisse aveva una figlia, di Alessandro Bruni (Paolo Emilio Persiani)
Un’odissea moderna, il viaggio di un uomo attraverso i ricordi rimossi della sua adolescenza, sullo sfondo dei primi anni ’80, politicamente difficili e oscuri, un uomo già sposato e affermato avvocato, che si trova improvvisamente di fronte una figlia di cui non ha mai sospettato l’esistenza, ma il cui solo sospetto di realtà, lo induce ad un percorso a ritroso interiore verso un passato lontano che sembra poter essere stato l’inizio di qualcosa. E quei ricordi contengono a loro volta un’odissea giovanile, quella del primo viaggio fuori dall’Italia di un ragazzino innamorato del calcio, che ha l’occasione di giocare una partita in trasferta per un gemellaggio con una squadra russa, esperienza che segnerà una svolta di maturazione importante.
Dietro la metafora di Ulisse c’è Carlo, il narratore interno, la cui placida vita familiare e lavorativa viene improvvisamente sconvolta dalla comparsa di una ragazza ucraina, che dichiara di chiamarsi Martina (ironia della sorte, proprio come l’adorata figlioletta di cinque anni), di essere figlia sua e di averlo cercato ora perché la madre è gravemente ammalata. E’ chiaro che la ragazza chiede dei soldi ed il primo impulso di Carlo è quello di respingerla e minacciare di denunciarla alla polizia. Ma i flaskback del passato ritornano; un passato felice tempestato di grandi aspettative col tempo dimenticate più che deluse; le quali sembrano riproporglisi ora, dopo anni, per una resa dei conti. E Carlo dopo aver lottato più giorni contro il richiamo di quel passato, dopo aver voluto continuare a ‘dormire’ il sonno della normalità, accetta di prenderne coscienza e partire.
Il primo passo è la confidenza della visita di quella ragazza ai due amici più grandi di allora, che in certo modo lo sono anche oggi anche se ciascuno è preso dalla propria vita. Ma, ancora più importante è la stessa confidenza alla moglie Claudia, che non si riduce come per i due amici ad un semplice discorso indiretto o breve dialogo ma va a costituire un romanzo breve nel romanzo: ne occupa la parte centrale, in un monologo ambientato interamente nel 1984, nel quale il narratore rivive quell’estate decisiva per la sua vita di sedicenne: “Cominciai a raccontare e lo schermo della memoria si accese davanti a noi”. Il calcio, l’amicizia, la spensieratezza, i primi contatti con la realtà politica del tempo, l’emozione della convocazione per la trasferta del gemellaggio in Russia, la prima grande trasgressione, il primo approccio alle ragazze, la prima esperienza sentimentale. Alla fine del racconto, “Io guardavo nel vuoto cercando di fare ritorno dai ricordi, Claudia guardava il pavimento, tentando di ritrovare la superficie delle cose”. C’era un prima e c’è un dopo il racconto di Carlo, le cose non sono più uguali, ma la profondità del loro sentimento vi saprà trovare un legame nuovo.
Carlo decide di compiere quel percorso non solo per accertare la propria paternità ma soprattutto per ritrovare qualcosa di un mondo e un tempo perduto: “Nulla di cui preoccuparsi, nessun legame, nessun debito, nessuna promessa da rispettare, nulla da rimettere ai debitori, da nascondere o confessare”. E l’autore lo accompagna attraverso le strade inospitali del centro europa, in un viaggio nello spazio e nel tempo tempestato di riferimenti all’Odissea omerica: “Siamo tutti dei poveri Ulisse dispersi nel mondo, in un viaggio che sembra non avere mai fine”; un viaggio che diverte, commuove, avvince, insegna.