L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre di Marilù Oliva (Solferino)
Chi conosce e ha letto Marilù Oliva, saggista e scrittrice dal cuore grande, è conscio della sua versatilità letteraria e ne ottiene nuova conferma in questo suo recente libro, edito da Solferino, che ci propone una lettura speciale dell’Odissea, originata dalla passione profonda dell’autrice per la mitologia greca, passione nata al Ginnasio, quando si perdeva disegnando i personaggi dei poemi omerici, ricostruendone gli intrecci familiari, coltivandoli negli anni seguenti tanto da sognare di restituire quel mondo in un libro che, più di 3 millenni dopo, potesse suscitare ancora interesse e stupore come riscuotevano gli aedi di un tempo.
E così è stato, forse anche perché è riuscita in quello che si era prefissata come ardito presupposto: un equilibrato connubio tra la fedeltà al testo originale da un lato e l’idea innovativa dall’altro, la trasposizione della focalizzazione del narratore da esterna a zero, in particolare da una narrazione verticale maschile da parte di Ulisse, alla narrazione orizzontale femminile, da parte di donne, mortali o divine, che l’eroe incontra nel suo viaggio; figure che peraltro erano già protagoniste a tutto tondo del poema omerico, capaci di configurarsi come personaggi intramontabili; ad esse Marilù ha voluto dare voce autonoma perché descrivessero loro il personaggio di Odisseo, attraverso la propria visione, il proprio rapporto con lui.
In questo modo ha ottenuto un grande effetto: quello di interpretare sentimenti ed emozioni che l’uomo, dalla propria prospettiva, non poteva immaginare in tutta la loro portata, e nello stesso tempo darci un’immagine ancora più profonda e poliedrica di quell’uomo. Perché, in fondo, anche se raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, l’Odissea è ancora, nelle pagine scritte da Marilù Oliva, il poema di Odisseo, l’uomo dall’ingegno multiforme, l’ultimo degli eroi greci, omaggio ai cantori che nei secoli ne hanno tramandato oralmente gli splendidi versi, perché lo stile narrativo moderno, scorrevole e raffinato utilizzato da Marilù, rispecchia con una musicalità soffusa il ritmo della poesia greca. Sembra quasi che ogni frase si svolga lentamente – come un filo che si srotola – e si adagi in finale, si posi. È un flusso morbido, che talvolta s’impenna quando la narrazione sale di tono, si infervora, per poi riplacarsi, con umile dolcezza.
Tutte le figure narranti, sia la delicata Nausicaa, la fiera Penelope, la passionale Calipso, l’ironica Circe, la spietata sirena Partenope, la dimessa Euriclea, sia perfino la dea Atena che interviene tre volte in intermezzi intercalati ai racconti delle altre, tutte raccontano i fatti, pacatamente, da una distanza di tempo e di luogo, ma tutte, quando parlano di Ulisse, dell’uomo, della sua personalità, di ciò che hanno condiviso, fremono di emozioni profonde, ardenti, che esprimono quell’umana caducità, che il poeta antico voleva cantare con quest’opera, a differenza di quello che aveva cantato nell’Iliade, eroi e dei, guerre e gloria, morte e onore. Qui, Ulisse non parla mai in toni ambiziosi (“Nessuno esce davvero vincitore da una guerra” dirà ad Euriclea poco prima di sterminare i Proci), non parla di onore e gloria, ma di nostalgia, di famiglia, di casa, di ritorno. È quello che tutte unanimemente riferiscono di lui: il desiderio di interrompere il viaggio, di fermarsi, di stare. La stanchezza, il bisogno di ritrovare gli affetti trascurati, il senso di perdita di momenti preziosi accanto a persone che da sempre fanno parte di lui e che lui, pur non avendoli mai dimenticati, ha lasciato struggersi in un’attesa troppo lunga. Nello stesso tempo, però, in tutti i racconti l’immagine di Ulisse resta quella di un uomo forte e fiero, mai debole, neppure quando colto nel pianto e nell’angoscia. Piange sì, l’eroe, ma quel pianto non è fragilità, è sensibilità, espressione di quell’amore immenso per chi lo sta aspettando da quasi vent’anni.
Il libro si legge con incanto e coinvolgimento, come se si ascoltasse la storia per la prima volta, perchè ogni personaggio palpita di emozioni nuove, inaspettate e pur assolutamente verosimili: l’amarezza di Nausicaa per l’eroe di cui si è innamorata ma che sa non poterle essere riservato, lo struggimento di Calipso, preda di un sentimento appassionato che non l’aveva mai coinvolta prima, la ferma fedeltà di Penelope, la sua astuzia, il suo ingegno così adeguati a quelli del marito, l’amara rassegnazione al destino delle Sirene (“predatrici del mare per necessità, fameliche perché non abbiamo mai ricevuto nulla, un sorriso, una coppa d’acqua che disseta, un’offerta da mani amiche”), sono solo alcuni dei sentimenti che si nascondevano in quei personaggi, che di certo il poeta antico aveva dato per scontati, ma che restavano sotterranei alla vicenda catartica del viaggio di Odisseo. Qui, è come se l’autrice avesse voluto invece richiamare l’attenzione proprio su quelle passioni, farle uscire, permettere alle protagoniste di esprimerle al mondo. Per questo accogliamo l’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, come qualcosa di fedele all’originale, e nuovo e affascinante al tempo stesso.
Nausicaa, di fronte all’apparizione selvaggia e quasi bestiale di Odisseo, non si spaventa come le sue ancelle: “Non riesco a scappare e lo guardo con l’umanità che prova chi sa che sarebbe potuto esserci lui, dall’altra parte (…). Nessun migrante è un uomo qualunque, nessuno merita di essere ignorato. Dietro ogni esule si nascondono storie che tutti dovremmo ascoltare attentamente, perché potrebbero ribaltare ogni pregiudizio”.
Circe, con la sua ammiccante sensualità, con un distacco dall’umanità lucido, quasi divertito, vede con grande chiarezza quello che, al di là del pur molteplice fascino, rende speciale Odisseo: “C’è qualcosa di più, in lui, oltre l’avvenenza e il corpo solido, oltre l’eroismo e la pazienza con cui ha sopportato le insidie dell’altrove. C’è una mente che sa solcare le increspature delle calamità e fare tesoro della polvere calpestata. Sa immaginare cosa dispiegano i destini, sa indovinare le probabilità, prevenire le reazioni dell’animo umano. Sa calcolare, reinventare, scartare controtempo”. È la più perfetta ed esauriente descrizione della poliedricità di Ulisse, che è molto, molto più di semplice astuzia. E sempre Circe sembra continuare il discorso di Atena sull’incomprensibilità per gli dei della paura della morte che attanaglia gli uomini, quando, per un attimo, in Odisseo riconosce “l’orrore che gli umani hanno per la morte. Vorrei rassicurarlo e dirgli che tanto i mortali sono spaventati dalla morte, quanto noi immortali lo siamo dall’eternità (…) per questo pretendiamo dagli uomini sacrifici che versino sangue (…), perché ci sia donata, per il brevissimo spazio della liturgia, l’illusione strabiliante della caducità”.
Euriclea, la vecchia nutrice di Ulisse, sembra quasi scusarsi della sua condizione di schiava, lasciando tuttavia trapelare, una scintilla di orgoglio, quasi impercettibile ma sensibilmente espressiva di una coscienza morale, “Noi siamo le ultime tra gli ultimi e ci spetta l’accondiscendenza o la violenza. Io ho scelto la prima”, e di una consapevolezza che va oltre l’accondiscendenza: “I maschi danno ordini alle donne, questo è comandato dalle regole non scritte degli avi. Devono mostrarsi forti e indicarci la strana, anche quando sanno benissimo che siamo noi la loro stella polare”.
Atena è una dea, una delle maggiori, figlia di Zeus, ma i suoi interventi sono di profonda umanità: anche quando afferma di non capire gli uomini, “le loro esitazioni, le loro gioie, la loro paura della morte”, quando dice di non temerli né desiderarli e quindi di non comprendere nemmeno Penelope, pur consapevole della “fitta terribile di dolore e solitudine che attanaglia chi ama un uomo diventato leggenda”, il suo tono è così etereo e apatico da sembrare paradossalmente intriso di una profonda, indicibile malinconia. Esprimendo la propria indifferenza, Atena comunica una forma di struggente emotività.
Ogni protagonista non parla solo di sé o di Odisseo, spesso parla di rapporti fra altre persone, a volte parla di altre donne, offrendoci, indirettamente, anche le loro emozioni. Così, ad esempio, è l’analisi della fuga di Elena con Paride, quel mitico tradimento che provocò stragi e dolore: “Quando aveva seguito Paride, l’aveva fatto soggiogata da quella forza così invincibile che è intrinseca ai sensi, alla pancia, alla pelle, qualcosa che sta a metà tra amore e violenza. Passione. Attrazione. Tormento. Non l’aveva nemmeno sfiorata il pensiero dei danni che avrebbe arrecato (…). La contemplo senza giudizio, in fondo è così facile condannare, ma chi ha sbagliato è già punito dalla storia in cui è imprigionato”. Questo senso di ineluttabilità (ricordiamo che per i Greci c’era un destino anche oltre il volere degli dei), risuona anche nella pacata accettazione di quella sorda vendetta che Poseidone cova inestinguibile da quando Odisseo accecò suo figlio Polifemo. Nella sua volontà di salvaguardare l’eroe, lei può soltanto cercare di contenerne gli effetti: “C’è una gerarchia, fra i rancori degli dèi, che va rispettata”.
Nelle Note finali, l’autrice onestamente riporta le minime licenze letterarie che si è concessa, a volte per praticità, a volte per adeguamento al contesto, dimostrando una volta di più il lavoro puntuale, coscienzioso e leale che ha fatto per presentarci quell’Omero che l’aveva conquistata da ragazzina e che voleva assolutamente che potesse fare la sua bella figura anche coi lettori di oggi. Perché, ne è convinta, “la grande forza dell’Odissea è la sua capacità di rispecchiarsi nell’attuale. Non scorgo molta discrepanza tra l’auditorio degli aedi, in età antica, e il lettore odierno che, pur conoscendo la storia, aspetta di venire sorpreso. Tra Odisseo e il migrante che rischia la vita in mare. Tra l’ira di Poseidone, coinvolto egoisticamente nella propria ottusa vendetta, e l’indifferenza dell’individualismo che ci circonda. Tra Calipso e gli amanti condannati alla prigionia della propria solitudine, tra Nausicaa e quelli che sognano un amore impossibile, tra Circe e coloro che inseguono l’emancipazione, tra Penelope e chi sa che la diplomazia, unita all’avvedutezza, è una delle più potenti armi di cui l’ingegno possa disporre”.