Ci sono posti così, di Vio Cavrini (Polaris)

Ci sono posti così, di Vio Cavrini (Polaris)


La caratteristica della letteratura di viaggio di Vio Cavrini è quella di cogliere il dettaglio: un paesaggio ravvicinato, un gruppo di persone, un complesso architettonico. Ma ancora più del collettivo è il singolo che lo colpisce: una persona in particolare, un animale, uno scorcio, una strada, un oggetto. E su questi dettagli costruisce una storia piena, articolata, emozionante.

Per questo l’autore si trova particolarmente a suo agio con la scrittura breve, il racconto. Si muove in una decina o poco più di pagine, che sono quantitativamente adeguate al suo intento molto specifico, che è quello di rendere omaggio al piccolo, a ciò che sfugge normalmente allo sguardo del classico turista, attratto dal grande, dall’alto. Cavrini guarda diritto davanti a sé o anche in basso, ai suoi piedi. E raccoglie per noi storie che difficilmente altri avrebbero saputo far emergere. Sono storie semplici che ci restituisce come preziose, profonde e indelebili.

Emblematico di questa sua caratteristica personalità umana e letteraria è l’incipit di questa serie di racconti: “Perfino gli occhi di un camminatore esperto avrebbero stentato a riconoscerlo. Sconnesso e malandato, come chiamarlo sentiero? (…) Amo percorrere questi vecchi sentieri quasi abbandonati. Mi sembra di aiutarli a sopravvivere, di riconoscere loro una ragione di vita e di ricevere in cambio la loro gratitudine“. E’ un sentiero sconnesso e malandato, quasi irriconoscibile. E lui ne è attratto, come sentisse la vita anche in quel sentiero, e lo ricompensa del solo fatto di esistere, di tracciare un cammino: lo percorre per dargli valore.

Ed è forse per la meta cui conduce che quel sentiero sembra volersi nascondere ed essere dimenticato, perché porta al Buco del Diavolo, una collina nel bolognese, dove il 23 maggio 1945, a più di un mese dalla liberazione, un’esecuzione privata, una delle tante che sbriciolarono l’amministrazione della giustizia in quel periodo, vide i fratelli uccidere i fratelli.

In Madagascar, è una parola il germe di un racconto riflessivo profondo, la parola vasàha che significa straniero e che lo disturba quando gli viene appioppata d’impatto, a volte con sorrisetti ironici. Ne sente la distanza, il distacco che frappone tra lui e l’altro: “Abbiamo un bel da crederci viaggiatori e non turisti, ma resta il fatto che in qualunque paese andiamo fatichiamo a superare il filtro imposto dal ‘mondo di mezzo’, che fornisce servizi agli stranieri – alberghi, mezzi di trasporto, guide… – parla le loro lingue e ha assunto molto delle loro abitudini e della loro cultura (…). Guardiamo questa gente protetti da nostri soldi, dai nostri fuori strada e dalle nostre vaccinazioni con il filtro del pregiudizio e del folklore”.

Bangkok, Thailandia. Quante sono le bellezze naturali e artificiali che si possono ammirare in questo paese lontano? Ma Cavrini non ci riporta quelle classiche che tutti indiscutibilmente coglieremmo da soli. Sceglie un evento molto particolare, tipico, dalla connotazione malinconica che esprime dal profondo il carattere di quella gente. Bike for Dad è una giornata dedicata al ciclismo dilettante: tutto il popolo thai partecipava a quella che, prima che manifestazione sportiva, era offerta d’aiuto, una preghiera collettiva per il governatore, molto anziano e ammalato: otto milioni di persone avevano sospeso la vita frenetica quotidiana ed il rumore che ne derivava si era ridotto a brusìo sempre più sottile fino a trasformare quella megalopoli in una città fantasma, pur intasata di gente. Il figlio e la nipote del re danno il via a quell’evento, e in tutte le città del regno, si assiste allo spettacolo di centinaia di migliaia di bici ordinatamente in viaggio per intercedere, presso qualche strana e moderna divinità, per la salute del loro re.

A Nairobi, da un episodio banale come la necessità di rifornirsi di denaro ricorrendo, come spesso i turisti fai da te trovano accettabile e conveniente fare, al mercato nero del cambio in Banda Street, si genera una storia affascinante giallo-noir.

Dall’humour dell’incipit da manuale Ikea, alla sfumatura amaro-nostalgica del finale: è la storia del cable carril, una teleferica gigantesca costruita in Argentina, agli inizi del XX secolo, in 1 solo anno: 450 carrelli, 35 km, 9 stazioni intermedie, 262 torri di sostegno dei cavi, distanza percorsa in altezza da 1075 m a 4603. Un complesso di impatto ambientale mozzafiato,”arrogante”, la definisce l’autore, che oltre a superare vallate e burroni, attraversò addirittura montagne con tunnel appositamente scavati. Lo scopo: portare il materiale aurifero estratto da una miniera a 4.600 metri giù giù fino al paese di Chilecito. Numeri sorprendenti. Ma, ad una più profonda riflessione, fa seguito ben altro sentimento che l’orgoglio. Quelli sono dati tecnici, dice l’autore, ma i dati umani restituiscono amarezza e sconforto:  milleseicento operai salirono alla miniera, lavorarono in condizioni disumane, spesso morivano lassù e dovevano essere riportati a valle dai compagni con la stessa teleferica che era tutt’altro che una scala verso il cielo: “Nel piccolo e ventoso paese ai piedi delle Ande il paradiso non si sa dove fosse, forse sottoterra, ma sicuro lassù, su una montagna a 4.600 metri, c’era l’inferno e lassù aspettava i dannati del cable carril, lassù pretendeva le sue vittime”.

Questo è Vio Cavrini, una sensibilità ricca del percorso culturale eterogeneo che lo ha formato che, nei suoi viaggi, ha saputo andare oltre ciò che è comunemente ammirato, e lodato, per trarne insegnamenti più profondi, Ecco perché vuole con questo libro lasciarci un monito: non fermarsi al banale apparente, guardare oltre, dentro, sopra, sotto, perché è l’uomo che conta prima e sopra tutto, l’uomo dentro il suo mondo, il suo ambiente, la sua comunità.