Il gatto buddhista, di Vio Cavrini (Polaris)
La seconda serie di racconti pubblicati da Cavrini nel 2015 prende il titolo dal primo di essi, ambientato a Myanmar, in Birmania, in un tempio buddhista della metà del ‘700, chiamato Monastero di gatti saltanti per la peculiare presenza, fra numerosi altri, di alcuni gatti eredi di quelli che negli anni ’60, un monaco aveva addestrato a saltare in un cerchio. Fra di loro l’autore ne nota uno che gli ricorda un gatto molto simile che da bambino aveva visto finire sotto un. Nel clima austero e mistico di quel tempio, “perchè non accettare l’idea che quel gatto bianco e nero fosse proprio Musobianco in una successiva vita?“. E, stando al gioco con se stesso, pensa che “la sua esistenza non doveva essere stata esemplare e certo non si era guadagnato meriti nelle vite precedenti, se l’avevo conosciuto gatto e gatto lo ritrovavo dopo decenni. I Karma che si erano succeduti non gli erano stati favorevoli ed era ancora molto lontano dal Nirvana“.
Questa delicata ironia permea molti racconti, sempre in una sorta di intima complicità con piccoli particolari di vita che coglie nei suoi viaggi e che rappresentano la gradevolissima particolarità della sua scrittura.
I ricordi di viaggio si susseguono senza un ordine temporale né logico, dettati forse dalla suggestione o da un inconscio fil rouge della memoria: da quello del 1975 in Salah, in Algeria, di cui ricorda l’imprudenza e la giovanile irresponsabilità con cui hanno affrontato il deserto pensando che fosse sufficiente un pieno di benzina, a quello dell’ottobre 2012 in California, a Baker, in quell’incredibile Mad Greek Café, miscela di riferimenti linguistici e folkloristici a partire dal nome stesso, mezzo inglese e mezzo spagnolo, passando dalla sorprendente citazione dall’inno alla libertà greco scritta nell’alfabeto latino al semplice ma accogliente poliglottismo del proprietario che sapeva salutare e ringraziare gli avventori nella loro lingua. Ed ogni viaggio è per Cavrini l’occasione di riflettere, cogliere un senso più profondo e universale da quello che osserva, sperimenta, scopre. C’è una umanità variegata di bene e male, di vita e morte, di perdita e conservazione, di abbandono e ritrovo, di illusione e delusione o aspettativa e conferma. Un’umanità disseminata nel tempo e nello spazio che ha sempre qualcosa da trasmettergli in un linguaggio, all’anima, perfettamente comprensibile: “Voglio essere uno scrittore che viaggia, non un viaggiatore che scrive” ha detto l’autore in un’intervista. E credo che ci sia riuscito benissimo, perché in questi racconti c’è uno sguardo attento e originale, una sensibilità acritica e pronta all’immedesimazione nella cultura, nell’ambiente, nella storia dei luoghi che visita. Anzi, che vive, perchè è capace di cambiare continuamente, modellandola sui luoghi e sulla gente, la sua empatia e la sua sensibilità.