Un’estate in montagna, di Elizabeth von Arnim (Mondadori)

Un’estate in montagna, di Elizabeth von Arnim (Mondadori)

La protagonista del romanzo torna alla sua casa di montagna, in Svizzera, alla fine delle prima guerra, che le ha tolto tutto quello che era il suo mondo: le ha strappato persone care e cancellato lo stile di vita che aveva sempre condotto e nel quale si era sentita felice, nell’unico posto in cui i ricordi felici erano talmente forti e concreti da poterla aiutare. Le prime pagine descrivono in modo profondo e toccante il senso di perdita, lo sconforto, il timore che la ferita (prima di tutto della guerra ma anche dell’abbandono, della fine di un amore) sia troppo sanguinante per potersi rimarginare. Ma sotto al dolore lei stessa sente la presenza di ceneri che potrebbero riscaldarla ancora e lì, sulle montagne, da sola, prova piano piano a riattizzarle.

In questi primi giorni trova conforto anche nella lettera di Henry James che loda proprio la sua allegria e la sua serenità (probabilmente una nota autobiografica: la sua grande ammirazione per lo scrittore americano e la breve corrispondenza scambiata con lui). Questi propositi di recupero psicofisico riesce ad attuarli completamente, però, solo nel momento in cui si confronta con altre due persone, altre due esperienze di disperazione che incontra casualmente lì. Due donne, due sorelle, si sono perdute facendo una lunga passeggiata e vengono accolte da lei, che, dopo alcuni giorni di solitudine, sente prepotente il desiderio di compagnia, di scambiare parole e confronti. Le due donne appaiono molto riservate: Mrs Barnes, la maggiore, rigida nel suo carattere refrattario e conservatore, Mrs Jukes, la più giovane, più serena e spontanea. Accolte nello chalet, rivelano pian piano un passato cupo e tenebroso quanto il suo e lei sente che forse nella condivisione delle esperienze potrebbero tutte trovare la strada per riaprirsi alla vita

La svolta, scanzonata, quasi farsesca, ma ricca di fiducia e disponibilità al cambiamento, arriva con lo zio Rudolph, un pastore che porta quel tocco maschile capace di cambiare le cose, di capovolgerle completamente. Lui, proprio come rappresentante della chiesa, viene sentito come lo specchio davanti al quale l’immagine della vita passata non deve riflettersi. L’amore inaspettato spezza questo laccio e riapre tutte le porte della speranza, per tutti, anche per la protagonista, che riesce finalmente ad abbandonare su quella rupe inaccessibile, il fagotto dei ricordi cupi e pesanti: “Alla fine, nessuno di noi andrà sprecato. Alla fine, il buono che c’è in noi non verrà distrutto dalle circostanze e gettato via come una cosa inutile“.