Il segreto della cavallina storna, di Maurizio Garuti (Minerva)
Con la sua prosa piana, sussurrata, gradevole come quella di una fiaba, Garuti scrive un romanzo denso di emozioni che è nello stesso tempo storico, sociale e di formazione.
La formazione è quella del protagonista narratore in prima persona, il ragazzino Mario, nell’abbraccio caldo della famiglia allargata nella quale è nato e cresciuto, in un paesino emiliano, sul podere di un padrone, al quale era destinata una parte del raccolto in cambio del lavoro della terra sotto la supervisione di un fattore. Una realtà sociale normalissima a cavallo fra ‘800 e ‘900, soggetta ai rischi del tempo e degli eventi naturali straordinari; purtroppo a volte anche al capriccio e all’interesse di chi aveva il potere su di loro, prima di tutto il fattore. Questa figura gioca nella storia un ruolo particolare, come personaggio negativo collegato all’assassinio del padre di Giovanni Pascoli, fattore su quelle stesse campagne per conto dei conti di Torlonia.
Mario ha undici anni, sta frequentando le scuole elementari, nella tranquilla vita di paese, con le mille avventure da cortile che caratterizzavano l’infanzia in queste zone. È quel quotidiano che emerge con tocco poetico e verista dalle prime pagine del romanzo: “La tavola tedesca con i piedi a cipolla era perennemente allungata nei suoi tre ripiani, e non bastava mai. Intorno a essa, un brulichio di mani e di bocche. Fuoco sempre acceso. Ombre e danze di fiamme sui muri. Finestre piccole, luce sempre scarsa. La nonna, col piatto sulle ginocchia mangiava seduta su uno sgabello sotto la grande cappa del camino. Un posto umile ma anche di riguardo, che spettava solo a lei, l’azdora, padrona del fuoco. Da lì controllava tutto l’antro fumoso della cucina. A una spanna da lei, in senso longitudinale, cominciava la grande tavolata. Il nonno, che le dava le spalle, era nel posto di testa. Ai lati sedevano i suoi figli, a cominciare dal maggiore alla sua destra. Poi le mogli dei figli. Infine i nipoti e i nipotini assiepati in fondo. Così è stata la famiglia Dacòrd per generazioni e generazioni. Un albero con radici, tronco, fronde e foglie”.
La storia di Mario si inserisce in un momento storico di grandi cambiamenti socio-economici di cui l’autore rende magistralmente l’impatto esercitato sui gruppi familiari. È il momento del passaggio da un’economia prettamente rurale ad un’economia che si apre alle nuove tecnologie e al nuovo sistema da esse indotto. Arriva l’energia elettrica, accolta con stupore misto ad incertezza dalla famiglia, ma decisamente con entusiasmo dal bambino, più fresco e curioso, capace di cogliere subito il vantaggio di godere più a lungo della luce per leggere. Ma soprattutto, arriva l’escomio, parola oggi in completo disuso ma ben nota alla generazione di quegli anni: oggi lo chiameremmo sfratto, imposto alle famiglie che non davano al padrone garanzie sufficienti di sapere o potere – a prescindere dalla causa direttamente o indirettamente loro imputabile – sfruttare al massimo il terreno loro affidato. All’escomio faceva seguito l’allontamento del gruppo familiare che a volte si spostava su altre terre da coltivare ancora per conto di un padrone, altre volte doveva affrontare un cambiamento ben più radicale, come capita alla famiglia di Mario che decide di affrontare la città con le sue prospettive di miglioramento delle condizioni di vita. È commovente lo sforzo che si percepisce da parte di ciascun membro della famiglia, di rappresentarsi i vantaggi di quella svolta, pur nella consapevolezza che c’è un prezzo da pagare molto alto: lo smembramento del gruppo familiare allargato ed il distacco dalla terra alla quale erano sempre stati legati nel bene e nel male.
Per la famiglia di Mario, inoltre, lasciare la campagna per la città creava una difficoltà precisa, l’impossibilità di portare con sé il vecchio nonno Moraldo. Questa figura, rappresentativa di un ‘tipo’ umano che, con caratteristiche più o meno simili, tutti abbiamo visto nelle nostre campagne, è uno dei personaggi più belli. L’autore riesce a dargli quella connotazione particolarissima e vera, di custode del passato, delle sue tradizioni, della storia familiare, dei suoi segreti, ma nello stesso tempo, capace di guardare avanti, a volte con più distacco della generazione successiva alla sua. Il nonno è immobile da anni, dopo aver subito un ictus ma non rappresenta un peso finchè la famiglia mantiene i legami con la terra e la casa in cui ha sempre vissuto; perché lì tutto è adeguato ad accoglierlo anche così: il grande albero sotto il quale passa le giornate calde estive, l’ampia cucina col tavolo intorno al quale passava comodamente il suo sediolone che era stato munito di ruote per lui. È Mario, come spesso avviene, a detenere il primato dei suoi affetti, perché c’è sempre un legame molto speciale fra nonni e nipoti, come una complicità che si crea e si nutre dello scavalcamento della generazione intermedia.
Ma c’è qualcosa di ancora più drammatico che sconvolge la sua età in quella fase di crescita dall’infanzia alla preadolescenza: il venire a conoscenza delle circostanze misteriose e crudeli nelle quali il padre del poeta ha perso la vita, poco lontano da lì. Di fronte alla spiegazione che doveva essere la più plausibile per quella realtà, e cioè il pagamento di sicari probabilmente effettuato da chi voleva prendere il suo posto, scatta in lui una rabbia incontenibile per l’ingiustizia e la crudeltà dell’atto.
Non è però che solo la prima parte del dramma che Mario vivrà quell’estate e che lo segnerà profondamente, incrementando quella reazione di rabbia che è una delle forme più infantili con le quali si risponde a qualcosa che fa male, che delude, che spaventa o che non si comprende. E sarà una verità insospettata a ferirlo profondamente.