Il sapore amaro della vendetta, di Saverio Gamberini (Freccia d’Oro Editore)
Settimo romanzo di Saverio Gamberini, prolifico scrittore della bassa padana, la cui insaziabile sete di introspezione psicologica lo porta a ricercare continuamente manifestazione emotive complesse da approfondire e chiarire. Sebbene si collochi non solo cronologicamente ma anche contenutisticamente dopo “Il condominio creativo” per richiami ad alcuni episodi e personaggi, non ne è a tutti gli effetti il seguito. È semplicemente una storia che coinvolge ancora il microcosmo di San Giorgio di Piano, comune bolognese nel nord della sua periferia, e della sua schietta popolazione. Ritroviamo ancora una volta i protagonisti dei romanzi precedenti, identificati da un nome al quale corrisponde un tipo di personalità, indipendentemente dal luogo e dal tempo in cui la storia è ambientata.
È ancora un giallo: classico perché il delitto viene indagato dai carabinieri della squadra locale, attraverso un tipico minuzioso esame degli indizi; ma è anche un giallo psicologico perché il primo imputato dell’omicidio di Brunilde, impiegata di un’agenzia assicurativa, fidanzata da tempo con Demetrio, dal quale si era appena staccata per un’improvvisa infatuazione per l’aitante personal trainer della palestra, Egidio, è proprio Demetrio, l’ex fidanzato. Gamberini ha posto sotto il suo obiettivo psico-analitico proprio lo spaesamento di un ragazzo tradito e abbandonato: le sue pulsioni alternate, gli istinti di vendetta, la voglia di perdonare e ricostruire, l’odio, il rimorso, il rimpianto, la rabbia. Sono davvero tante le emozioni che si affollano nell’anima abbattuto del giovane: sono naturali, comprensibili perché “viene spezzata una simbiosi tra due persone, una simbiosi che è stata interiorizzata ed è diventata parte integrante della persona. La rottura della simbiosi innesca un effetto distruttivo sull’identità che si trasforma in un incontenibile istinto di distruzione verso ciò che ha formato la simbiosi. Verso se stessi, e verso la persona amata. I sentimenti di affetto non possono più coesistere con la realtà di distruzione” e le reazioni che si scatenano devono essere controllate, veicolate per non sfociare realmente nel delitto o nel suicidio o in qualsiasi altro gesto insano. Infatti, dopo la prima reazione di incredulità e poi di sgomento, Demetrio si carica in breve di una collera che gli fa immaginare come unica reazione la vendetta: una vendetta consumata con violenza distruttiva sia su di lei che si di sè. Ma, fortunatamente, non sempre è questa la fine di un rapporto per tradimento di una delle parti; indirizzato da Desolina a trovare un mezzo per esprimere i propri impulsi confusi e disperati, magari nel disegno, Demetrio mette in pratica il suggerimento, realizzando, sulla parete della Coop di San Giorgio, un murales strepitoso: cruento, sanguigno, macabro ma artisticamente geniale: “Aveva rappresentato il suo dramma interiore. Gli aveva dato una forma e un colore. Aveva reso pubblico il suo tormento e questo gli infuse l’orgoglio di chi ha combattuto una dura battaglia riportando diverse ferite. Quelle ferite non erano più rinchiuse nel suo animo tormentato ma trovavano una dignitosa espressione e conferivano valore alla sua sofferenza”.
Se Demetrio è al centro dell’indagine psicologica di questo romanzo, la ricerca dei moventi che scatenano comportamenti emozionali incontrollati, si rivolge anche ad altri protagonisti: Brunilde prima di tutto, la cui personalità, a differenza dei romanzi precedenti, ci appare questa volta scialba e inconsitente e di primo acchito non siamo portati a comprendere la sua insoddisfazione; il suo comportamento è frammentato in atti impulsivi che colpiscono per la loro superficiale precipitosità: dalla semplicità con cui si lascia sedurre da Egidio, alla minaccia di rivelare tutto alla moglie, dalla freddezza e infantilismo con cui lascia Demetrio (un semplice biglietto, formale, asettico) alla delusione per la reazione di lui che sortisce l’effetto di destabilizzarla, finalmente, rispetto alla scelta fatta che solo in quel momento le appare, effettivamente, come un errore: “Quello che prima era insignificante, quello che si era buttata alle spalle con un semplice biglietto d’addio, si ripresentava e pretendeva il suo spazio”.
Anche Egidio e la moglie vengono analizzati come coppia: una coppia inconsistente, costruita sul perbenismo e la bellezza esteriore a copertura di lacune di stima e rispetto reciproco. La superficialità con cui Egidio seduce e abbandona Brunilde, la sua preoccupazione di mantenere il decoro familiare, sono espressione di valori egocentrici che prescindono dalla sensibilità dell’altro. E questo vale sia per Egidio che per Monica: lei per prima sa benissimo che “con lui è possibile soltanto una relazione fugace, che non gli chieda niente, che non lo responsabilizzi. Ma siccome la sua vita affettiva in questo modo è sempre incompleta, sospesa nell’incertezza, ha sempre bisogno di altre conferme, di altre relazioni, deve ave la certezza di poter conquistare l’amore di altre donne, senza però mai contrarre un legame vero. Il legame diventerebbe per lui una prigione”. Egidio è meno lucido nell’autocoscienza ma è certo di non voler proseguire il rapporto con Brunilde e nemmeno di sottostare ai ricatti sconsiderati di lei.
Il sapore amaro della vendetta è un leit-motiv, nel senso più letterale del termine, echeggia più volte nel romanzo, provata da persone diverse: un ritornello inquietante che risuona all’orecchio del lettore come un espediente narrativo curioso e intrigante, che potrebbe da un momento all’altro sfociare nel consumo dell’atto vendicativo.
Il maresciallo, figura di secondo piano, quasi macchietta in romanzi precedenti, emerge in questo in tutta la maturità del suo profilo umano e professionale. L’indagine che conduce, oltre agli indizi concreti (su materiale biologico, rilievi sul terreno, interrogazioni), sfrutta principalmente l’esame delle reazioni istintive, del loro manifestarsi nei tratti del volto, nello sguardo, nei quasi impercettibili movimenti di iridi, palpebre, muscoli facciali.
L’appuntato Esposito acquista anch’egli un ruolo nuovo in questo romanzo: pur mantenendo il suo irrinunciabile ruolo di spalla comica del maresciallo, rivela un carattere sensibile e premuroso che gli consente di offrire un aiuto incisivo nelle indagini.
Mai, nell’autore, c’è l’ombra di un giudizio cinico, severo, inoppugnabile. I suoi personaggi sbagliano perché sono umani: e certi comportamenti sono propri della natura nella sua complessità psico-emotiva. Per questo, per sottolineare la sua benevolenza, la sua volontà di comprendere senza giudicare e di permettere così di aprire visioni più placide nei rapporti interpersonali, l’autore mantiene in tutto il romanzo lo stesso registro umoristico dei precedenti, che serpeggia ovunque, pagina dopo pagina, comprese quelle degli eventi più tragici: accanto alla morte, al dolore, alla rabbia, Gamberini mette sempre un sorriso, provocandone un altrettanto dolce nel lettore. Un po’ per stemperare i toni, dando alle sue storie una credibilità tutta particolare, proprio grazie a questa tecnica narrativa e un po’, forse, per calarsi nell’ambiente popolare che ha scelto per le sue storie, la Bassa Padana, nelle sue località tra Bologna e Ferrara. Questo tono leggero e gentile accentua la disponibilità indulgente all’ascolto e all’accoglienza.
Tutti gli attori di questa commedia popolare, protagonisti e comparse, sono semiseri nel loro bifrontalismo tragicomico, come del resto, in fondo in fondo, dovremmo essere tutti, cercando di guardare le vicende della vita da tutte le possibili prospettive.