Lontano da Padre Marella (Minerva)
Per i bolognesi che lo hanno visto negli anni’50 e ‘60 ogni giorno, con qualsiasi tempo per le vie del centro chiedere l’elemosina per i suoi ragazzi, Padre Marella è un’icona della città, una figura incancellabile che Maurizio Garuti ha scelto di restituirci attraverso un “racconto teatrale in forma di monologo, da recitare sul palcoscenico o da leggere in poltrona”, come lo ha simpaticamente annunciato lui stesso. È la visione di uno dei suoi studenti, di quando insegnava filosofia al Liceo Galvani, che ce lo presenta nella sua singolarità fisica – “Una barba lunga, rossiccia, incolta. Uno sguardo innocente e smarrito (…) Una specie di marsina scura, lunga fin quasi ai piedi, un indumento singolare, vecchio e frusto, che forse in origine era stato un capo da cerimonia, o da teatro” – sia nella stranezza del suo insegnamento che lo rendeva del tutto atipico: “Diceva che la filosofia era una palestra della ragione; serviva ad allenare il muscolo del cervello: un muscolo che alla fine doveva prendere atto dell’impotenza umana di fronte a quelle domande (…): Quando avrete capito tutto, avrete capito ben poco. L’intelligenza umana non è che un fiammifero acceso in un mare di tenebra. Quel fiammifero porterà in luce un minuscolo angolino. Tutto il resto è un mistero che si chiama Dio”.
Partendo così dagli anni in cui lo conobbe sui banchi di scuola, riportandone un effetto di empatia e stupore, il protagonista, io narrante, ripercorre la storia di Olinto Marella da quando entrò in seminario giovanissimo diventando prete a 22 anni al Ricreatorio che fondò nel suo paese per far studiare i bambini più poveri, maschi e femmine (un progetto troppo rivoluzionario “per una chiesa bigotta, conservatrice, che non tollerava il minimo spiffero d’aria nuova sulla sua immobilità, sui suoi privilegi” che lo portò alla sospensione a divinis dalla Chiesa”) al suo arrivo a Bologna, dopo aver peregrinato in supplenze temporanee dal nord al sud d’Italia, finalmente con una cattedra di filosofia fino agli ultimi anni quando ormai vecchio con la lunga barba bianca con cui è comunemente effigiato e ricordato, continuava instancabile la sua missione. Ma l’io narrante – ed il titolo è emblematico di questo – ne rimane distaccato, lontano appunto. La sua storia è quella di tanti giovani del dopoguerra, carichi di entusiasmo politico, attivi nelle file comuniste dalle ridenti aspettative di uguaglianza e solidarietà nei quali, a poco a poco, gli eventi storici e sociali o gli sviluppi della loro carriera professionale, raffreddarono quel fervore, adagiandoli in una vita di benessere. Il protagonista ha compiuto questo cammino e la figura di Padre Marella è per lui uno specchio di coscienza, il richiamo limpido, privo di qualsiasi giudizio o condanna, alla sensibilità verso l’altro, soprattutto se povero e solo. E in quegli anni di poveri e soli ce n’erano tanti, tanti. A partire dai bambini per i quali Padre Marella crea a San Lazzaro la Città dei Ragazzi, per arrivare ai braccianti rimasti senza lavoro.
Il racconto di Garuti, con l’intensità propria di questa forma narrativa, con lo struggimento del dramma teatrale, riesce a mettere a nudo la coscienza del suo protagonista che sente tutto il peso delle scelte di comodo e di egoismo fatte. Anche il lettore si trova a fare i conti con la propria coscienza, come se avesse davanti a sé ancora quel prete professore che “non ti apriva la mente, ti apriva il cuore. Ti obbligava ai primi esami di te stesso (…). Ti incuriosiva, ti attraeva, ma ti metteva sottilmente a disagio. Per la prima volta sentivi una responsabilità, di fronte a te stesso, di fronte agli altri”.
Un racconto che finisce con l’ultima pagina perchè l’editore Minerva l’ha arricchito di splendide foto d’epoca, di Walter Breveglieri, che ne fanno un piccolo gioiello di ricordi ed emozioni.