L’ora buca, di Valerio Varesi (Frassinelli)
Dal poliziesco-noir del commissario Soneri ai potenti romanzi storici della Trilogia della Repubblica, Valerio Varesi è sempre una certezza, qualunque cosa scriva, di qualunque genere e con qualunque registro narrativo: impeccabile, profondo, avvincente, è riconoscibile sempre per una caratteristica, lo stile perfetto, denso, capace di sfruttare al massimo le potenzialità della lingua italiana con la scelta oculata di parole ed espressioni.
“L’ora buca” è un romanzo nuovo, attualissimo nella sua denuncia mirata, non retorica, della decadenza dei valori della nostra contemporaneità e dei rischi di una massa che si lascia travolgere da realtà alternative, alla ricerca di qualcosa di appagante, senza accorgersi che la via percorsa per arrivarci, apparentemente facile e frequentata, porta solo al baratro.
Romanzo possente: multigenere e pluritematico. Dal romanzo psicologico dell’introspezione individuale del protagonista, al romanzo sociale che allarga il fuoco dal singolo alla collettività, elaborandone il rapporto e indagandone le reciproche influenze, le manipolazioni politiche e mediatiche; per tingersi sempre più, verso la fine, di sfumature distopiche nella visione preoccupata e pessimistica di “un’umanità in cammino che scappa dal pensiero della morte”.
L’ora buca, l’ora vuota che gli insegnanti hanno tra una classe e l’altra, in un giorno qualsiasi in una scuola qualsiasi, per due professori di fisica, il protagonista (che non ha un nome a sottolineare l’indefinitezza nella quale si sente affondare) e Pampaluga (per contro, altrettanto simbolica la scelta del nome di una maschera lombarda come si vedrà nel seguito), è l’occasione di uno scambio di riflessioni semiserie sulla casualità che regola l’universo.
È il primo dei temi che si profila con l’incipit, quello della coscienza dell’educatore che, avviluppato nel dubbio sul senso della vita, si rende conto di porsi di fronte a dei ragazzi che in quella vita stanno entrando, come un “untore che diffonde la malattia mortale della disillusione”.
Da questo casuale scambio di idee comincia per il protagonista la discesa verso il proprio baratro umano: sempre più incapace di reagire alle esplosive e vitali provocazioni degli alunni, sempre più confuso e contraddittorio (“Nel mezzo di una lezione, i ragionamenti mi sfuggivano cadendo dentro crepacci di amarezza in cui trascinavo i ragazzi in cordata”), finisce per essere sospeso dall’insegnamento.
E’ allora che s’imbatte in una fantomatica Agenzia che gli prospetta un percorso di recupero della propria identità attraverso esperienze costruttive. Così il protagonista, già vacillante nella propria soggettività, si cala nelle vesti del marito defunto di una cliente dell’agenzia che ha acquistato un servizio che le restituisca fittiziamente il marito. Il professore riceve una pratica dettagliata che contiene tutta la storia della coppia, che dovrà studiare alla perfezione per non fare alcun errore che possa infrangere l’illusione di essere il Giovanni perduto da Gina.
Nel rapporto con Gina il protagonista comincia paradossalmente a sentirsi a suo agio perché, pur nelle vesti di un estraneo, sente che lei riesce a distinguere i due ruoli, quello costruito nell’esecuzione del contratto che entrambi hanno stipulato per motivi diversi con l’Agenzia e quello profondo, vero, del suo io, dell’essere che stava smarrendo e che, nell’agonia della dissolvenza, sembra emergere dalla maschera del marito che indossa. È un rapporto sofferto nel quale entrambi si feriscono e pur si cercano a vicenda, sempre con l’ombra dell’irrealizzabilità della conoscenza reciproca: “Siamo più pensieri che gesti e parole. Sta tutta qui l’incomunicabilità tra le persone”.
Così come fa Pampaluga con la moglie. In un momento di inerzia del loro rapporto, si è recato per curiosità in un club di scambisti, dove le identità sono completamente annullate da una maschera che è d’obbligo vestire per poter essere ammessi ai locali; la maschera (altro fondamentale tema del romanzo) serve però, al contrario di quello per cui normalmente la si indossa, non per nascondersi, ma per rivelarsi, non per fingersi qualcun altro, come la maschera simbolica che il protagonista indossa per Gina, ma, al contrario, per essere più liberamente se stessi, per estrinsecare la propria personalità senza pudori, principi, regole, convenzioni. Più volte Pampaluga chiederà all’amico di accompagnarlo, alla disperata ricerca della moglie perché, dopo la prima sconvolgente esperienza di trovarsi per caso in quel luogo, dopo la vergogna, la rabbia, il pentimento ed il perdono reciproco, entrambi hanno scoperto in quel gioco una nuova forma di passione, più difficile ma più coinvolgente ed appagante. È emblematico: nel paradosso di quel “cercare in un posto che si fondava sull’occasionalità”, Pampaluga ha trovato il modo di sublimare l’atto del primo approccio amoroso, dell’incertezza, del senso di perdita e di attesa: “Nella vita puoi sempre barare, dare colpe agli altri, alle circostanze, alla purezza d’animo che ti rende inadatto al mondo (…) Salvo certi casi come quello capitato a me e mia moglie. Arriva un momento in cui non puoi più fingere, appari a te stesso in una tragica consapevolezza”.
Il tema dell’incomunicabilità è un altro ancora, straziante nella sua fredda disamina: “Anche la coppia più affiatata ha sempre un ripostiglio dove accantonare il non detto, i piccoli rancori che s’ingrossano negli anni con la ripetizione. Ma finché si sta assieme sono blindati dentro l’oscuro caveau di cui solo noi conosciamo la combinazione (…). Siamo tutti una cassaforte l’uno di fronte all’altro”.
Il professore sta invece percorrendo una strada diversa, con un altro obiettivo: la conquista dell’attimo fuggente di una realizzazione personale forte, nella quale poter ridere di quel senso di frustrazione che deriva dalla consapevolezza della vacuità, ergendosi al di sopra della massa resa uguale da una civiltà del benessere che sta annullando ogni differenza ed ogni individualità. È il sé netto che il protagonista cerca, un sé potente e irridente di tutto quello che uniforma e ingrigisce le masse, di cui il web e i social sono causa ed effetto: “Quell’immenso amplificatore che è la rete registra tutto e lascia tracce indelebili di ciascuno di noi. Ma in questa ossessione democratica cancella le differenze, appiattisce ogni cosa e gesto, annulla la qualità equiparando il rutto alla poesia. L’uguaglianza così concepita ci riporterà allo stadio di primati” perché “non si spendono energie nel cercare un pensiero proprio, si prende per buono quello altrui (…): il bagaglio intellettuale non è più personale ma collettivo. Nessuno è più tenuto a sapere nozioni di storia, filosofia, algebra o fisica: c’è una tastiera da digitare. In definitiva il sapere è ormai fuori dai cervelli. La dipendenza dalla protesi che si porta in tasca diventerà presto un unico cervello che fornirà dati per tutti e ragionerà allo stesso modo per tutti”.
L’Agenzia ha capito che dietro quel disorientamento c’è nel professore una volontà molto forte, una sensibilità particolare che può essere sfruttata per altri fini. Così, comincia ad emergere un’altra, inquietante faccia dell’Agenzia quella di un mero strumento mediatico manovrato da un misterioso movimento politico che mira a prendere il potere e che ha selezionato, nel professore, l’individuo perfetto per quello scopo, il quale a quel punto si trova di fronte ad una scelta obbligata: salvarsi vivendo la propria interiorità o rinunciare a sè per l’appagamento dell’apparenza. Come Gavrilo Princip, il serbo che aveva ucciso il duca Ferdinando scatenando la Prima Guerra Mondiale non secondo quel piano ben definito che era stato elaborato coi complici, ma per un semplice caso, una coincidenza di eventi che gli ha fatto capitare il duca davanti alla propria arma, quando ormai sembrava essergli sfuggito: “L’alea delle circostanze si prende gioco della nostra volontà. Quel gioco li fa trovare uno di fronte all’altro: la vittima e il suo boia. Princip spara e apre una crepa nel mondo. Tutto precipita e si infrange col fragore di un cristallo”. Massima espressione del caso, come regola dell’irrazionale e incontrollabile flusso quantico: ancora un grande, impegnativo tema che Varesi, in questo romanzo, tratta magistralmente.