Il lato imperfetto delle cose, di Andrea Cavalieri (Pendragon)
L’idea embrionale di questo romanzo è venuta all’autore da un viaggio a San Francisco dove è stato colpito dalla rappresentazione dell’imperfezione – nella forte immagine delle migliaia di homeless che riempiono certe zone della città – e nello stesso tempo dall’idea di libertà – stimolata dalla visita al carcere di Alcatraz. La copertina stessa del libro viene da quel viaggio e può considerarsi altrettanto parte del romanzo quanto le pagine interne. Una stanza d’albergo di San Francisco, fotografata dall’autore stesso, un’immagine proiettata dalla luce sulla parete: “be ood”, nella quale “manca un G per essere perfetta. Ma forse la perfezione sta proprio nell’imperfezione. Sarebbe bellissimo scrivere sul muro, in bella grafia, pezzi della nostra vita trovando sempre le parole giuste, ma a volte perdiamo per strada qualche lettera e siamo costretti a scarabocchiare, in precario equilibrio, sul lato imperfetto delle cose che sempre meno ci appartengono”.
Tornato in Italia, Andrea Cavalieri, scrittore, sceneggiatore, attore, dalla spiccata capacità di cogliere e restituire storie di strada nella molteplicità delle sfaccettature emozionali che offrono, ha tratto da quelle impressioni di viaggio un romanzo che qualcuno ha definito “potente”. Potente perché dopo aver soggiogato il lettore con i suoi cinque protagonisti più uno, lo spiazza con una schiacciata finale. Un colpo di scena inimmaginabile con il quale forse ha voluto tenerci con i piedi per terra, restare ancorati al qui e ora, dove la vita strattona con le sue sfide e le sue delusioni.
Cinque protagonisti per cinque decadi d’età che l’autore voleva indagare nelle pieghe della loro psiche. I 30 anni di Elisabetta, i 40 di Sergio, i 50 di Samantha, i 60 di Elvis Colasanti, i 70 di Anna. Cinque protagonisti che si introducono a vicenda nei primissimi capitoli. Sotto una rigida e abbondante nevicata che ha riempito di candore e silenzio la città di Bologna, Sergio, per compiacere la sua anziana vicina di casa Anna, si reca in un bar dove deve consegnare ad un giovane sconosciuto, un medicinale salva vita che deve arrivare a Roma, alla figlia di una grande amica di Anna, stroncata da una malattia.
Un inizio alla Simenon, grigio, vintage, con la sgradevole sensazione che si stia preparando qualcosa di misterioso e illecito.
Poi l’atmosfera muta e l’impressione di minaccia incombente si affievolisce fino a scomparire. I personaggi agiscono sulla scena con allegria, rivelandosi tutti nella loro imperfezione. Senza veli, senza false scuse: da Anna, incapace di accettare il passo dell’età, che sente ancora il desiderio di piacere, in particolare al suo giovane e gentile vicino di casa; a Samantha che ha alle spalle un divorzio e una figlia in carcere negli Stati Uniti e, ciononostante, ha cercato di reagire buttandosi nel lavoro con entusiasmo e intelligenza: dopo aver avviato un ristorante vegano, ha cominciato a tenere un corso di cucina in televisione che le procura successo e soddisfazioni. Elvis Colasanti, marito di Samantha, ancora più imperfetto nella sua vita di musicista fallito, alcolizzato, disoccupato, ha lo stesso passato familiare sfasciato dal divorzio e dalla condanna della figlia. Elisabetta, Ely come il padre la chiamerà in tutto il romanzo, è, nella fragilità della sua giovinezza, la più imperfetta. Dopo le due lauree con le quali aveva risposto a chi non le dava due soldi per la timidezza e l’isolamento, non era stata capace di sostenere il ruolo di responsabilità che le sue capacità le avevano spianato. Sposata ad un americano che si rivelerà un debosciato, trascinandola in un abisso di droga e violenze, si ritrova accusata di omicidio e condannata a scontare una pena trentennale entro il carcere di San Quintino, dove “devi diventare dura come pietra. Non c’è spazio per altro. Ti tolgono tutto. I vestiti che avevi, le belle parole, la versione più dignitosa di te stesso, i sogni che facevi da bambina. Ti lasciano solo sguazzare nel rancore e nel risentimento, che ti alimentano ma ti consumano, forte o piano non importa. Lo fanno e basta. Ci devi fare i conti, un giorno dopo l’altro. E a volte, vorresti soltanto morire, ma pensi che forse non staresti bene neanche all’inferno, perché lo conosci e ci sei già. Allora continui imperterrito a odiare, odiare, odiare all’infinito, non fai altro che odiare per tutto il tempo che ti resta”.
Simbolo di imperfezione e paradosso di una libertà che non è libertà è il sesto personaggio di questo dramma umano, l’homeless Horst, che Elvis conosce appena arrivato a San Francisco e che gli offre, per la prima volta, un controvalore dell’imperfezione: “Alcuni mi definiscono un barbone, un disadattato, un ripudiato, un drogato, un alcolizzato, un senzatetto o, come dicono qui in America, un homeless. Forse sono vere tutte queste definizioni e non mi offendo, ma preferisco sentirmi come un gatto, sicuramente randagio, che scruta, annusa e osserva bene la vita che gli scorre davanti”. Non chiede l’elemosina: è la gente che l’aiuta. Horst – i cui aggettivi usati per definirsi si adattano assolutamente anche ad Elvis e alla figlia – ha semplicemente scelto di spostarsi continuamente per vedere le cose da diverse angolazioni, cercando di non farsi influenzare.
Il meno imperfetto di tutti è forse Sergio, perché è il più illeso dalla vita, una sorta di tela bianca sulla quale non è dipinto ancora nulla. E, generoso e sensibile, lascia che gli altri imprimano la propria imperfezione, accettandola indirettamente da Elvis ed Ely, direttamente da Samantha e Anna. Purtroppo, però, nel momento di un rapporto diretto con le imperfezioni altrui, Sergio diventa la sicura scarica a terra di quelle emozioni sospese da una vita; emozioni complesse che le due donne non avevano elaborato del tutto e che riversano su di lui.
Elvis ed Ely, in uno straccio di libertà ritagliata e provvisoria, recuperano un rapporto primordiale, assaporato nell’infanzia di lei, poi perduto nella contaminazione delle vicende della vita. Ora, entrambi hanno pagato il conto della loro imperfezione: “La perfezione non esiste, mia cara. Ci si può andare molto vicino, ma non la si raggiunge mai. Forse è meglio così. L’imperfezione invece è molto più eccitante e rassicurante al tempo stesso, perché ti espone meno ai fallimenti. Puoi puntare lo stesso ai tuoi sogni, ma lo fai da un altro punto di vista, meno diretto ed evidente, non necessariamente più basso. È solo il lato imperfetto delle cose. Quelle cose che richiedono più tempo per affermarsi e anche se non si completeranno mai possiedono già una loro bellezza intrinseca. Perché l’averci anche soltanto provato fa di noi, poveri esseri umani, degli eroi”.