Fuga in campagna, di Maurizio Garuti (Minerva)
Collezionista di storie della bassa bolognese, Maurizio Garuti è la penna che trasferisce la tradizione orale delle campagne padane in racconti e romanzi dove segmenti poetici intersecano la trama in prosa. E a quei racconti e romanzi dà veste diversa a seconda della storia, delle atmosfere, degli intenti sottesi.
La campagna è la meta che Andrea Traversi con la moglie Francesca e la figlia Maria Sole vuole raggiungere per dare un taglio al passato cittadino. Insegnante in pensione, dopo una vita vissuta in centro a Bologna, avendola vista a poco a poco guastarsi e insozzarsi, decide di rifugiarsi nel suo opposto. La campagna è promessa di decontaminazione, libertà, silenzio, dolcezza: “Via i palazzi, via le case, via le auto. Via i marciapiedi, via la gente. Via il frastuono. Via tutto. Fu come alzare il sipario per un cambio totale di scena”. Promessa, sì. Ma come tante promesse, non verrà mantenuta. Perché la campagna rivelerà un’anima ben diversa dall’idilliaca arcadia immaginata da Andrea. È una campagna prepotente, impositiva, violenta che, senza pietà, mette a nudo i conflitti latenti, quelli che una vita cittadina agiata e sempre uguale aveva tenuto quiescenti. Non è in un passato immaginato più che ricordato, letto, sognato, che si può ricostruire una vita reale consunta o spezzata. Andrea si scontra proprio contro questa utopia. In campagna pensava di trovare quella quiete che gli avrebbe consentito di continuare blandamente e senza sforzi quella vita tranquilla che aveva vissuto a lungo nella sua giovinezza, grazie ad un lavoro di rispetto e al patrimonio solido della moglie che l’adorava riflettendosi nell’immagine stessa di lui. Quando cominciano a profilarsi derive nuove, più contorte e minacciose, cambiamenti culturali e sociali che sconvolgono il suo rapporto con le nuove generazioni, Andrea “se ne sente turbato fin quasi alle lacrime. Lui che aveva sempre fatto lezione narrando, avvincendo i suoi studenti come se la cultura classica – storia, letteratura, lingua – fosse l’intreccio dello stesso grande romanzo”, si sente tradito e pensa di fuggire per ritrovarsi in un quadro, un quadro placido come un paesaggio di Monet. Ma la campagna non è quello. O, se lo è in certi momenti, colti nella sospensione di emozioni percepite da un osservatore sensibile, in altri è molto diversa. Per questo la campagna non può accogliere chi fugge. Perchè diventa anch’essa qualcosa da cui fuggire. E quel qualcosa ci segue. Ovunque. Se non cambiamo noi.
Un confronto primordiale fra caos e ordine, fra sogno e realtà aleggia nelle pagine in cui Garuti aspira e riesce egregiamente a rendere la natura nella sua duplice veste: di nascita e di morte, di vitalità e di minaccia, di fiducia e di inganno, di accoglienza e di ripudio. E’ capace di creare immagini indimenticabili di entrambi i volti. Così, di notte, “si udiva il canto continuo dei grilli e delle rane. E i versi degli uccelli notturni. Incombenti sul tetto. Remoti nei campi. Appollaiati sugli alberi. In caccia. In amore. Il tutto creava una catena sonora senza fine, che saliva, scendeva, si placava, ricominciava”. Ma di notte, la campagna è anche “un magma buio. Spuntavano, tremolando come fiammelle fatue, le cime dei pioppi illuminate dalla luna. Sembrava un lago nero, addormentato. Eppure nei suoi abissi tutto era vivo”.
Anche Maria Sole è espressione di questa disillusione. In campagna cresce. Ma non come si sarebbero immaginati i genitori: con gradualità, delicatezza, fino a schiudersi in un fiore candido e luminoso. Ci sono piante che crescono tutte in una volta, quasi con rabbia, aggrovigliando le proprie foglie come se non sapessero dove andare, cosa diventare. Maria Sole, in sprezzo a quel nome imposto come una luce per gli altri, approda all’adolescenza in questo modo: con ferocia e furia incontenibile. Ma è uno sviluppo naturale, quello di una ragazza di carne e sangue, non di un’icona affrescata. Per questo distrugge le bambole che erano state di sua madre e che lei le aveva donato. Perchè erano simbolo di una vita falsa, di una visione asettica e imbambolata della realtà. La sua anima, però, è un seme buono, che ha in sè un fiore ed un frutto. E quell’anima sente l’affinità con Cosimo, il nipote di Giangirolamo, suo compagno di classe, isolato dagli altri ragazzi, timido, indipendente, sognatore. I due si trovano nei primi approcci amorosi e si appoggiano l’uno all’altro per svincolarsi da una realtà familiare, troppo cruda per lui e troppo rarefatta per lei. Insieme diventano vita.
Non è solo Maria Sole a ribellarsi in istintiva risposta allo sviluppo psicofisico dell’adolescenza. Sono anche Andrea e Francesca a trovarsi di fronte l’uno all’altra come per la prima volta e vedersi senza filtri. Francesca deve decidere se raccogliere i pezzi di quel simulacro che aveva fino a quel momento adorato nel marito: “La sua capacità di tolleranza, una volta spontanea e illimitata, si era improvvisamente esaurita. Non aveva più scorte di tenerezza, neppure di garbo. Non aveva scudi per difendersi o per nascondersi. Il suo ego – un ego che era sempre rimasto in ombra, rivestito di premure e dedizioni – era balzato fuori senza veli. Disilluso. Insofferente”. Andrea realizza con sgomento che “nel profondo del suo essere si annidavano spiriti così velleitari che potevano risalire alla coscienza e impadronirsi della sua vita, delle sue scelte, con quelle conseguenze rovinose per sé e per la stabilità della sua famiglia”. Presa coscienza della minaccia, deve trovare la strada per elaborare il cambiamento fisico della moglie, l’albeggiare in lei di una coscienza autonoma e complessa.
Le ombre cupe di una Villa si dispiegano sugli orizzonti familiari fin dai primi giorni: è evidente che là dentro succede qualcosa di losco, proprio perchè sembra non succedere assolutamente nulla. Ed ogni familiare, avvicinandosi incuriosito e timoroso al tempo stesso, da solo, senza condividere quel suo bisogno di esplorare sfidando minacce occulte, comincia il percorso di isolamento, introspezione e distacco.