Simmetrie, di Jacopo Veneziani (Mondadori Electa)
Già noto e apprezzato divulgatore d’arte in TV (ospite settimanalmente di Massimo Gramellini) e sui social, Jacopo Veneziani laureato alla Sorbona in Storia dell’Arte Moderna, ispirato dalle parole di Georges Didi-Huberman (“L’immagine non sta nella storia alla stregua di un punto su una linea” perchè esistono “contenuti, concetti, desideri e ambizioni in grado di travalicare le epoche”), in questo libro ha voluto tentare un anacronismo andando alla ricerca di simmetrie tra artisti lontani nello spazio e nel tempo, scoprendo – e portando il lettore a scoprire con lui – riletture affascinanti delle opere del passato attraverso opere successive.
Sono nati così dieci confronti, ciascuno su un determinato tema, una caratteristica dello stile, del contenuto, dell’intento dell’autore. Tema che dà il titolo, poetico e suggestivo, ad ogni capitolo. Così, Un desiderio d’altrove è l’idea che l’autore si è fatto della prospettiva di Masaccio e Lucio Fontana volta a far immaginare una profondità oltre il primo impatto visivo. Ciascuno dei due, naturalmente, l’ha perseguita coi mezzi tecnici e culturali del tempo: Masaccio con la prospettiva centrale inaugurata da Brunelleschi e Fontana con tagli praticati con perizia per aprire spazi oltre l’opera, “verso un ignoto altrove”.
Fuori dal mondo, nei pensieri è il titolo della simmetria tra Friedrich e Rothko, il primo struggentemente romantico-religioso volto ad “esprimere la forza della spiritualità in una cultura sempre più scientifica e tecnologica”, con figure piccole, lontane, di spalle, perdute nell’immensità dello spazio naturale; il secondo, addirittura ancora più introspettivo, “abbandona ogni riferimento al mondo esterno per connettersi sempre più con il mondo interno dello spettatore, i suoi sentimenti e le sue emozioni” e gioca coi colori, accostamenti di tinte sfumate o contrastanti per dare l’idea allo spettatore di trascendere la realtà.
La frase storica di Galilei Eppur si muove viene in mente all’autore per la rivoluzione apportata da Paolo Uccello e Marcel Duchamp: se il primo, già per i contemporanei, ebbe il genio di portare il movimento in pittura (“non rappresenta, narra” dice Veneziani), il secondo, sulla scia dell’avvento del cinema, portò in pittura la velocità. E lo fece con un mezzo nuovissimo, quello che fu poi definito ready-made, prelevando cioè oggetti già finiti, di uso quotidiano, ed astrarli, portandoli in un museo.
Sembra un contrappasso l’accostamento dei ritratti di Luise-Elisabeth Vigée Le Brun ed Egon Schiele. Lei che come alcune poche illustri precedenti (tra cui la Gentileschi), riuscì ad affermarsi professionalmente come artista, tanto da diventare pittrice di Maria Antonietta, è stata capace, oltre a lasciarci delicati e ridenti autoritratti, di esaltare la bellezza delle forme reali delle persone che ritraeva: “riusciva” dice Veneziani “in pochi minuti a stabilire una relazione di fiducia ed empatia con i suoi modelli. Li invitava ad essere spontanei, a sorridere – è una delle prime pittrici a dipingere i denti – e a lasciar emergere il loro lato più intimo e privato”. Schiele, all’opposto ma forse non troppo, trasformò il proprio corpo “in una sorta di sismografo capace di registrare i subbugli psicologici di un’Europa in ebollizione (…). Con i suoi autoritratti non interrogava più se stesso ma un’intera epoca, esplorava un Io collettivo e lasciava emergere emozioni e sentimenti fino ad allora mai rappresentati”.
Un altro accostamento interessante è quello che va a scovare – e rivelare – I tranelli della realtà: in Vermeer, nella sua Allegoria della Pittura, dove sembra volutamente sbagliare le proporzioni dello spazio (la modella incastrata contro la parete) e in Magritte, nella sua famosa Ceci n’est pas une pipe dove si prende gioco dell’interpretazione ufficiale: “Potremmo mai prendere la pipa di Magritte, riempirla di tabacco e fumarla? No, quindi…non è una pipa!”. Entrambi i pittori, pur così lontani fra loro, non fanno altro che invitarci a non confondere la realtà con le sue rappresentazioni.
Rosso Fiorentino e Matisse, per Veneziani, hanno portato La liberazione del colore: le tinte sgargianti proprie del manierismo, l’uso di luce e colore come veicolo di pathos del primo possono ben essere avvicinati ai fauve meteora fra i movimenti artistici per i cui esponenti – Picasso e Matisse, fra gli altri, i colori non servivano più a rappresentare fedelmente il reale ma ad esprimere una visione personale del soggetto.
Emblematica, tanto da finire in copertina, è la simmetria fra le figure di Caillebotte e Hopper ed i loro Giochi di sguardi. Nel primo, in Strada di Parigi in un giorno di pioggia, l’autore ci sfida a trovare anche un solo contatto visivo fra le figure presenti. È la solitudine sociale, la struggente alienazione che comporta l’altrui indifferenza. Ne I nottambuli, da qualcuno ritenuta “la notte americana più famosa nella storia dell’arte” sembra di osservare “pesci in un acquario”, dice efficacemente l’autore, “figure rinchiuse in un ambiente sigillato ermeticamente”. Ancora più sole che in Caillebotte, le figure di Hopper sembrano smarrite, alienate, sembrano “aver allontanato il mondo, gli altri e se stessi da sé”.
Inevitabile, davanti al Trionfo della morte affresco originario dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palazzo Sclafani a Palermo, oggi alla Galleria regionale di Palazzo Abatellis, e Guernica di Picasso, “il quadro più visto e meno guardato del Novecento” secondo Veneziani.
Veneziani ha un tocco giovane, nuovo, ironico nell’approcciare l’esame e la spiegazione delle opere d’arte; sembra rivolgersi al lettore, parlarne con lui, stimolarne impressioni e commenti. Fa battute, richiami, indovinelli addirittura, con l’effetto di trascinarlo dentro il libro, in una passeggiata dinamica e rilassante al tempo stesso nelle vie già battute ma sempre piene di sorprese della storia dell’arte.