Quando volevamo fermare il mondo, di Antonio Fusco (Giunti)
“Un amore finisce davvero solo quando non hai più bisogno di dimenticarlo. Quanti amori non dimenticati ci accompagnano nel tempo? Amori che hanno dato una direzione al o scorrere del a nostra vita. Che ci hanno portato dove siamo, con gioia o sofferenza. In fondo si sceglie sempre per amore, che sia corrisposto o meno, che sia vissuto o solo immaginato. Per me non è stato diverso. Nel bene e nel male, sono quel che sono anche perché incontrai una giovane ragazza di nome Giulia”.
Il protagonista, Massimo (soprannominato L’Indiano per i suoi tratti orientali), si porta dentro da dieci anni una delle delusioni più traumatiche della gioventù, quella di un amore tradito da parte di chi credeva amico. Anzi, cosa forse ancora più intollerabile, di chi lo era stato, senza alcun dubbio. Tra Massimo e Pietro si era instaurato fin dall’infanzia un legame forte, sincero, incondizionato, fino a quando, inaspettatamente o forse no, l’amore ci si è messo di mezzo: tra Giulia, fidanzata di Massimo, e Pietro, scatta una scintilla che infiamma loro ma brucia l’altro. Uno scontro e la separazione definitiva da entrambi. Massimo lascia gli studi ed entra in polizia.
Intrecciata a questa storia, personale ma per lo più autenticamente autobiografica, l’altra storia, vera, dei conflitti sociali che, iniziati lontano, a Seattle, si propagano in Europa e poi in Italia, in vista del G8, nel luglio 2001, quando è ambientato il romanzo. A Napoli, dove le squadre mobili si trovano di fronte le prime proteste ‘armate’ aggressive, si generarono i primi scontri, un assaggio di quello che sarebbe avvenuto dopo. E poi, Genova. In quei giorni l’autore pone il punto d’incidenza delle due rette che costituiscono i percorsi di vita del protagonista; quello giovanile e quello maturo. In quei giorni, tutta la sua vita implode come in un buco nero di una resa di conti: col passato dei suoi legami di amicizia e di amore, col presente e col futuro del suo ruolo nella società. Amore ed amicizia che aveva cercato di dimenticare.
Mentre Pietro, a sua insaputa, si trova tra i manifestanti vivendo le esperienze estreme di Bolzaneto, Massimo si trova tra chi, chiamato a proteggere e difendere, finisce sul banco dell’accusato di soprusi e violenze. Un paradosso che ancora pese su tante coscienze, che ancora non è stato sviscerato e compreso fino in fondo e che forse non lo sarà mai perchè dove agiscono gli impulsi emotivi dell’uomo, dove le motivazioni razionali possono posarsi su fondamenta solide e condivise pur se contrapposte, non si potrà mai, davvero, distribuire in modo salomonico la ragione ed il torto.
La storia è costruita sui ricordi personali, sugli atti dei processi, sui riferimenti ai tabulati radio delle comunicazioni fra i centri operativi e le unità mobili e quello che affiora è, soprattutto, lo stato confusionale in cui versavano gli uomini della polizia. Era come se, nonostante le attese, nonostante i pregressi, i preparativi, gli eventi fossero inconcepibilmente andati oltre ciò per cui si erano formati: “Il passaggio delle notizie di bocca in bocca e la discussione che nasceva tra di noi al reparto finivano per ingigantirle e renderle ancora più inquietanti di quanto non fossero già”.
La paura è uno dei protagonisti del romanzo. Si profila nel sentito dire, nella preparazione, nell’attesa e, naturalmente, raggiunge livelli esponenziali al momento dei fatti: “Innescando un ancestrale processo psichico, la paura finì con il generare un nemico nelle nostre teste. Un nemico capace di farci del male. A quel punto, già non eravamo più in grado di distinguere tra Black bloc, facinorosi, antagonisti, disobbedienti o semplici manifestanti che ponevano questioni di grande importanza per tutti. Le varie anime del movimento non esistevano più. In piazza ci saremmo stati noi e loro, punto. La classica semplificazione che crea i conflitti: amico o nemico”, in una visione ancestrale della vita: giusto-sbagliato, bene-male, buoni-cattivi. È semplicistica ma naturale: riflettere per scegliere se stare da una parte o da un’altra è essenziale per costruirsi un’etica.
La parte narrata da Massimo poliziotto riporta il dramma di un punto di vista, quello di chi cercava ed era convinto di fare il proprio dovere, il proprio lavoro, ciò che gli era richiesto. E tanti, certamente, lo hanno fatto. Onestamente. La parte finale, narrata da Massimo amico, riporta il controcanto amaro, lamentoso, indignato dei manifestanti, di chi ha vissuto, con la stessa convinzione di star facendo la cosa giusta, lo stesso sgomento e disinganno per la violenza che vedeva davanti e contro a sè, lo stesso impulso di rabbia per un senso di ingiustizia e di legittima difesa: “Volevano fermare il mondo che stava andando in una direzione sbagliata. Nell’interesse di tutti. Noi, invece, eravamo lì per fermare loro e garantire la sicurezza del Forum, nell’interesse dei rappresentanti di Stati democraticamente eletti. Tutti avevamo una missione da compiere e tutti eravamo convinti di avere ragione e di stare dalla parte giusta”.
Quella che Antonio Fusco, dopo vent’anni, rielaborando ricordi, esperienze e valori ha voluto fare con questo romanzo è una riflessione sottile, acuta e coraggiosa sui mille strati sottostanti quella divisione, che rendono sdrucciolevole il confine e, pur convinti di aver aderito alla parte buona, ci si può ritrovare scivolati in quella cattiva, così come chi ritenevamo indubbiamente dalla parte del torto, ci può apparire improvvisamente da quella della ragione perché c’è un momento in cui inevitabilmente il polverone si posa e quello che resta è “una giovane vita spezzata. In qualsiasi modo fossero andate le cose, oltre il torto e la ragione, rappresentava il fallimento nella gestione dell’ordine pubblico”. Fusco ha preteso da sé – ed è stato sicuramente in grado di ottenere – umiltà e capacità di autocritica, restituendoci un bellissimo romanzo, dove le emozioni non hanno colore ma si mescolano, si sovrappongono, si contrappongono. La vicenda personale di un amore che ha scatenato rabbia e sofferenza è emblematicamente parallela alla vicenda sociale di una missione sentita come giusta e dovuta da entrambe le parti che ha portato ugualmente rabbia e sofferenza. Quello che conta, alla fine, è imparare a pensare, non solo con la propria testa, ma anche con quella dell’altro. Per ridimensionare il muro che divide visioni contrapposte: non abbatterlo ma ridurlo così che ciascuna parte possa gettare uno sguardo al di là del confine e capire qualcosa in più.