Castigliego e i segreti del papa, di Alessandro Maurizi (Fratelli Frilli)
Secondo romanzo del commissario Castigliego, della Squadra Mobile di Roma. Un protagonista che, a differenza di tanti altri della narrativa di genere, ha un intrigante, scomodo privilegio, quello di lavorare a casi che lo portano nel cuore dello Stato della Chiesa, dove non dovrebbe per natura albergare alcun desiderio di male, ma dove, come si scoprirà in questa storia appassionante dalla prima all’ultima pagina, c’è un desiderio di male dissimulato in una missione universale di bene. Almeno, questa è la suggestione che muove l’assassino o gli assassini o i mandanti.
La storia si svolge durante la Settimana Santa, poco tempo dopo l’elezione di un nuovo pontefice che ha preso il nome di Celestino VI (un’idea felice da parte dell’autore, la scelta del nome Celestino VI per il suo papa immaginario, un nome che è rimasto inutilizzato dal tempo di Colui che fece per viltade il gran rifiuto e che dispiega una vaga inquietudine.Tanto più che l’elezione è avvenuta sullo sfondo sinistro di una morte incomprensibile avvenuta il pomeriggio precedente, in Conclave: l’avvelenamento di cinque cardinali, di cui uno letale. Un delitto di cui non viene data pubblica notizia, ma di cui sembra trapelare qualcosa che finisce sulle pagine di un giornale privato di limitatissima tiratura, gestito da un giovane privo di risorse e prospettive, Leone Freitas.
Castigliego non è su questo caso che è incaricato di indagare. Ci arriva sulla scia di un’indagine tutta sua, avviata segretamente, facendo domande in giro, come dice ambiguamente con il proprio capo Loris Greco, che comunque gli dà implicitamente fiducia, perché la morte del giornalista Freitas che lui conosceva viene archiviata subito come suicidio. Lui non ci crede. Conosceva Freitas.
Celestino VI è un pontefice proveniente da Manila, che nell’imprinting ha le condizioni di allucinante disagio nelle quali versa gran parte della popolazione: “Pesavano sulla coscienza quei bambini che cercavano tra i rifiuti qualsiasi oggetto che avesse un po’ di valore (…). Insopportabile il ricordo delle famiglie che vivevano in quattro metri senza bagno, in un ciclo di povertà infinito: nonni, genitori, figli, nipoti, uniti nelle trappole generazionali. Le speranze spezzate da un mondo di miserie, putride baraccopoli e cimiteri abitati dai morti e dai vivi, una convivenza che troncava i sogni, la povertà che toglieva certezze, i sorrisi vivaci e spensierati dei bambini sostituiti dalla diffidenza”. La sua missione vuole essere di lotta in nome anche di quelle realtà, indipendentemente dal credo che manifestano: “Il Vaticano si nutre di simboli che spesso sottolineano il nulla. Mi piacerebbe un maestrale che spazzasse via le nubi”. Sarà quella missione auspicata, o forse solo sognata, a scatenare la paura e la reazione rabbiosa di chi alimenta quei simboli vuoti. È stata
In un’indagine che, diversamente da quello che dovrebbe essere, porta Castigliego sempre più al largo, “schiudendogli orizzonti infiniti”, espressione che Maurizi usa in forma antitetica, per esprimere una sensazione non di libertà e speranza, ma di angoscia da perdita di ogni riferimento. È così che Castigliego si sente: sempre più lontano dalla riva di partenza e non in vista di alcun punto di approdo. Saranno le domande disseminate in giro e rivolte a se stesso a portarlo avanti, senza farlo arenare nella rinuncia: “Farsi domande è meglio che stare sempre a darsi risposte” gli aveva detto il padre di Freitas, ringraziandolo implicitamente di non credere alla bolla del suicidio apposta alla morte del figlio.
E Castigliego va avanti domanda dopo domanda, anche quando l’indagine lo porta sempre più dentro le maglie amministrative della Chiesa, che gli si stringono intorno con la forza di poteri le cui fondamenta, mistico-dogmatiche, astratte e incontrovertibili, sono più solide di qualsiasi altra legge civile o corrente culturale. Va avanti perché la notte non lo spaventa. C’è un capitolo splendido dedicato alla notte, il 39, sceneggiato come un intermezzo musicale, una musica sacra a cappella, sullo sfondo della quale Castigliego si muove: “A Castigliego la notte piaceva. Delle ombre, poi, non aveva paura. Nell’ombra ci si può nascondere e scatenare la rabbia (…). Nella sua testa ogni rumore era uno sparo e un buco nero (…). Il respiro di Castigliego, in quella notte, si fece sempre più breve e faticoso. Sentiva che stava per mettersi a urlare. Aveva come l’impressione che le vene della città si fossero aperte e che una lava primitiva ne uscisse a fiotti per allagare gli orizzonti. Sentiva quella lava stringere, arrivare alla fola. Soffocava. Ogni giorno soffocava un po’ di più. Avrebbe dovuto trovare il modo di fare barriera al mondo, ma la notte era lunga, a Roma”.
Il romanzo è scritto in modo scorrevole, appassionante, con interruzioni di capitoli al punto giusto, tutto secondo le regole di un giallo. Ma l’autore sa anche dare, con tocco mirato e preciso, pennellate di analisi psicoemotiva: i rimorsi e i sensi di colpa della voce senza volto che si sfoga e autopunisce, la rassegnazione desolata del padre di Freitas, la prostrazione mentale del papa che si sente avviluppare dalle ombre di una congiura che crede di poter reprimere con la propria rinuncia. Quel nome incombe su di lui tormentandolo fino alla descisione finale.