Le voci dei libri, di Ezio Raimondi (Il Mulino)

Le voci dei libri, di Ezio Raimondi (Il Mulino)

Questo breve libro racchiude tutta la vita dell’autore vista attraverso la lente della sua passione per i libri: una passione che lo ha formato e marcato nei suoi rapporti con la famiglia, con la società e con la vita.

Raimondi recupera episodi dell’infanzia che hanno esercitato un influsso fortemente creativo sulla sua personalità. Toccante il paragone fra cultura e cucina, nel dolce omaggio alla madre che, nell’umiltà della sua ‘ignoranza’ nel senso latino del termine, ha compreso più di tanti altri il valore dello studio. Ha capito l’inclinazione del figlio e la necessità di accompagnarlo in un cammino che sarebbe stato senza dubbio molto oneroso per loro: “Sono nato in una casa dove non c’erano libri, anche se vi entrava il giornale della città. I libri sono arrivati con l’ingresso nella scuola e forse per questo, fin da ragazzo, li ho considerati una specie di aiuto necessario per crescere. Era la percezione anche dei miei genitori, che sapevano leggere e scrivere ma avevano della cultura

E’ sempre la madre che dall’infanzia all’adolescenza, veicola la passione per lo studio del figlio: “Non vi fu passaggio della mia maturazione culturale che non sia avvenuto sotto lo sguardo trepido di mia madre. Si faceva un punto d’onore di andare di persona ad acquistare i libri, oggetti sacri ma insieme creature fidate, cui affidare qualcosa della propria creatura”. Un complimento straordinario per una madre: che il figlio riconosca la sua volontà di affidarlo ai libri: “L’intuizione straordinaria fu di creare distanza da sè nella cultura del figlio, perchè questa, accompagnata e vissuta insieme passo dopo passo, si riversasse in un rapporto più profondo, in un affetto più meditato. Da un mondo senza cultura mi portò al mondo della cultura“.

La prosa di Raimondi, pur articolata, complessa, raffinatamente aulica, è indiscutibilmente poetica. Ne è un esempio questa bellissima immagine delle biblioteche: “La biblioteca è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l’umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina”. Si sente l’eco dell’idea di università come di alma mater, madre che nutre. 

Dopo la madre è la volta di un altro grande formatore, Heidegger, conosciuto attraverso il libro Sein und Zeit e letto acriticamente, come se lo avesse davanti a sè e lo ascoltasse, “era un Heidegger sottratto alla dignità accademica, portato nella vita comune”. Era il dopoguerra della ricostruzione e quegli anni hanno segnato profondamente il professore bolognese, travolto da “quello straordinario disordine che diventava furia del vivere, volontà di futuro, ansia di ritrovare il rapporto con gli altri”. E Heidegger fu per lui, in quel momento, un maestro franco, “che aveva in parte il suono della profezia e in parte della verità misteriosa” e che “dava un’impronta di dignità al mio vivere giorno per giorno”. E, inevitabilmente, “anche per mia madre Heidegger esisteva; esisteva perchè ne parlava il figlio e quindi diventava un cittadino di via Mascarella, a contatto con le nebbie, gli stati d’animo di un ragazzo che cominciava le sue avventure, anche sentimentali, insieme a quelle ideologiche e sentiva di colpo l’irrompere della storia”.

Uno degli ultimi capitoli è un toccante ricordo del rapporto speciale che ha unito il professore con il collega Giuseppe Guglielmi, profondamente appassionato ed esperto di letteratura francese per la quale aveva fatto varie traduzioni importanti. Una volta conosciutisi e percepito a pelle quella “confiance de belles âmes”, per più di vent’anni si ritrovarono ogni domenica mattina per condividere il piacere di sfidarsi alla ricerca della forma migliore italiana con cui rendere un passo di un testo francese. L’atmosfera calda e lieta in cui i due amici dopo colazione passavano due ore nello studio, interrotti solo dalla moglie di Raimondi per un caffè, è indimenticabile e ci sembra di essere prsenti ai loro incontri: “Il lavoro comune sulla traduzione assunse per vent’anni il colore della fedeltà e dell’amicizia”.

Infine…il trionfo dell’ultimo capitolo, dedicato ai libri e alla loro portanza di vita, un inno all’intimità che si forma tra un lettore e i suoi libri, il tempio della biblioteca domestica. E la biblioteca di Raimondi, per molti un cumulo di disordine, è ai suoi occhi piuttosto “una sorta di foresta e il lettore un cavaliere errante che ripercorre vecchie leggende, vecchie storie, vecchie illusioni”. “La biblioteca è un dominio pieno di mistero dal quale attingiamo una realtà più profonda: dalla polvere del passato ricaviamo ragioni del presente: ciò che pareva immobile, consegnato all’inerzia del già vissuto, si modifica secondo le nostre prospettive di oggi”.

Di un’aura particolare poi sono dotati i libri donati, perché “Il libro che viene da un amico è un amico” e finisce per acquisire personalità, forza empatica, “diventa una creatura che hai sempre a fianco e che porta nella tua vita i suoi affetti (…). Un libro vero va amato: lo si rilegge come si fa visita a un amico”.

“Quando leggiamo ci portiamo dietro le nostre origini”, apportiamo cioè (anche questa è un’idea condivisa da Villoro) qualcosa di noi stessi: “Il libro vero, quello con cui si dialoga più volte, al quale si ritorna, non conferma delle verità, ne offre di nuove, purchè da parte nostra resti viva la curiosità, il desiderio di ascoltare qualcuno che parla del nostro presente al momento giusto. Perché il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui, il momento giusto: con il colore della parola, con la singolarità della battuta (…). I libri, certe volte, fanno la parte della creatura silenziosa che dice ciò che tu desideri che dica”.