L’ultima estate del Festivalbar, di Alberto Andreoli Barbi (Pendragon)
Lampante esemplificazione della frase di Charlie Chaplin “Grazie all’umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita, esso attiva il nostro senso delle proporzioni”, questo romanzo di Andreoli Barbi immerge, in un trama fortemente e irresistibilmente umoristica, un nucleo narrativo autobiografico profondamente doloroso e mostra come il riso sia spesso un’ancora di salvezza. Il lettore conosce Giovanni Andreoli, il protagonista, da un incipit che lo preallarma: un messaggio sul telefonino sconvolge all’improvviso la sua vita di barista, contitolare di un locale chiringuito a Verona. Poche le tracce lasciate all’immaginazione, sicuramente un amore finito. Un amore forte, difficile, forse, ma totale. Così totale che dopo quel messaggio Giovanni chiude il bar e si mette in viaggio. È estate, l’estate del 2008, l’ultima estate del Festivalbar, che per un gestore di locali degli anni ’80 – ’90, significava quasi la vita. Anzi, lui credeva davvero che la vita fosse come un Festivalbar: è il tormentone che rilancia più volte nel romanzo, ad ogni persona con cui si interfaccerà in modo non superficiale. Ma la vita in quell’estate lo scuote, come per svegliarlo da quel sogno.
È disperato. E quello che gli viene naturale è cercare i suoi amici di scuola, veri grandi amici di sempre e per sempre. Tutti con la loro vita, le loro storie, tutti distanti, ma tutti ancora legati. Un legame sincero sorto sui banchi di scuola difficilmente si scioglie. E loro, anzi, lo rinsaldano. La prima persona da cui Giovanni va è Angelica, la più bella della classe, di cui forse si era innamorato ma che lei stimava troppo per trattarlo come uno dei tanti. Al momento, Angelica è accompagnata al rampollo di in imprenditore italiano nel campo dei cosmetici che si è stabilito in una delle capitali del profumo francese, in Provenza. Giovanni è accolto e trova il dialogo, trova l’abbraccio, trova i ricordi.
Tornato in Italia va sul Lago Maggiore, nella casa di villeggiatura di Fabio il più impacciato, insicuro, ma volenteroso del gruppo. Tanto che è quello che sembra aver costruito quello che nessuno degli altri è riuscito a costruire: una famiglia normale, con un lavoro normale. Una moglie, due figli, un terzo in arrivo, ed una rosa di parenti strampalati, dalla moglie salutista alla cugina cacciatrice di avventure.
Dopo di lui, sempre alla ricerca di qualcuno o qualcosa che sistemi il subbuglio che ha dentro, Giovanni va da Teresa, la studentessa colta, aspirante insegnante, ma precaria e costretta a lavoretti di ripiego, come quello attuale, in un locale sulla riviera adriatica, dove lo accoglie, anche lei con la stessa sincera premura degli altri, lo stesso confidenziale calore di un tempo. E come gli altri lo sa ascoltare, gli sa parlare, lo riavvicina ai suoi genitori; ma cerca soprattutto di riavvicinarlo a se stesso, a quel tipo “allegro, istrionico, funambolico” che era sempre stato: “Non credo che tu non abbia sentimenti forti o non possa soffrire. Credo solo che la tua maschera non si adatti alla tragedia. Hai sorriso alla vita, non vedo perché ora dovresti stravolgere il tuo modo di essere (….). Non cambiare dentro. Non perdere l’ottimismo e la voglia di vivere. Sono doni che non bisogna sprecare per nessun rapporto. Nemmeno un grande amore”.
Pago per quel sostegno sincero ma sempre senza pace, va al quarto e ultimo degli appuntamenti, quello cercato per primo ed ottenuto a fatica. Zeno al liceo era chiuso, solitario, si era aperto a poco a poco solo solo con Giovanni e, tramite lui, con gli altri del gruppo. La sua vita di adesso è, come il suo carattere di un tempo, più ostica e misteriosa di quella degli altri. Gestisce con la compagna un agriturismo a Viareggio, ma ha in mente qualcosa di più, un grande festival pucciniano. Un sogno che costa dei compromessi e che Giovanni fatica a comprendere, ad accettare.
Tutti i suoi amici hanno saputo stargli vicino ma non hanno saputo o potuto riparare lo strappo avvenuto nella sua vita. Li aveva cercati ma non abbastanza. Non si era aperto del tutto. A nessuno aveva detto il motivo del suo cambiamento. E’ Zeno a spingerlo con più forza. Con l’esempio. Con l’umiltà di raccontare lui, per primo, qualcosa che si portava dentro da tempo.
Il giro è finito e Giovanni deve fare i conti con quel messaggio. Più volte nel corso della storia il lettore ha incontrato passaggi di richiamo che gli hanno dato indizi sulla realtà delle cose (gli onirici capitoli intitolati “Silenzio” e principianti con sfumature di colore sfuggenti come Bianco latte, grigio, avorio, verde acqua).
Eppure, in questa trama drammatica nel profondo, il profilo del romanzo resta nettamente umoristico. L’ironia del protagonista permea ogni evento. Si presenta da ciascun amico senza confidare nulla, dicendo solo che vuole fare un po’ della vacanza estiva in sua compagnia. Entra nelle loro vite, con le provocazioni, le domande e i commenti salaci, li scombussola nel loro tran tran più o meno soddisfacente. È una ventata di risveglio per loro e di reazione per lui. Attraverso la lente dello humor, i protagonisti affrontano lo specchio della loro esistenza, quello che hanno ottenuto e quello cui hanno dovuto rinunciare, o che hanno perso, ma anche quello che ancora sperano. Ed è andata così: “I veri pilastri da cui ripartire erano gli affetti di quelle persone che mi avevano dimostrato che non ero solo al mondo”.
Il libro è anche un bellissimo affresco della riviera adriatica degli anni del Festivalbar, gli anni ’80-’90. Ed è soprattutto un omaggio alle canzoni di quegli anni, di quei jukebox. Non c’è dialogo nel quale Giovanni per primo e gli amici per stargli dietro, non parlino per citazioni calate perfettamente nel contesto. È uno scrigno di ricordi musicali che hanno segnato una generazione: “Le canzoni hanno la stessa utilità dei paletti che tengono ferme le tende da campeggio. Impediscono che le emozioni e i sentimenti dei periodi in cui le abbiamo sentite, cantate, ballate volino via”.