Pensavo fosse amore, invece era un caso umano, di Claudia Venuti (Sperling & Kupfer)

Pensavo fosse amore, invece era un caso umano, di Claudia Venuti (Sperling & Kupfer)

“Totalmente autobiografico” definisce l’autrice questo romanzo brillante e riflessivo, divertente e amaro, espressione di quel mix di tragicomico che la vita riserva un po’ a tutti. Tragicomico perchè Claudia Venuti, riminese d’adozione, romantica, sognatrice, con già diversi romanzi di successo all’attivo, è capace di questa lettura delle proprie esperienze; è capace di condirle, retrospettivamente, con quel pizzico di humor che le rende non solo digeribili, ma nutrienti, in prospettiva di una maturazione di un senso etico umile e non narcisistico.

Uno dopo l’altro, snocciola i dieci più eclatanti casi umani nei quali si è imbattuta, scambiandoli per veri amori. A partire dal primo, quando aveva solo ventitré anni, per finire all’ultimo, dieci anni dopo, il più sofferto, dopo il quale è rimasta “sola per un anno e mezzo, con il terrore, amplificato come non mai, di poter ricascare nell’ennesima situazione sbagliata”.

Dopo il bestemmiatore seriale che, oltre ad infarcire il proprio gergo di blasfemie continue, se ne è persino tatuata una indicibile addosso, è stata la volta di un pompiere stalker, sgamato proprio dalle sue assillanti insistenze, poi di Nicola, “l’apripista di altri disagiati come lui, già impegnati con un’altra persona eppure così desiderosi di cercare altro, di fingere, di prendere in giro chi capita, come se instaurare delle relazioni fosse un giochino da tavolo”.

Più buffo che drammatico, per fortuna, è il breve episodio che vede protagonista il narcisista noioso che l’irretisce con la prospettiva di procurarle dei contatti per la pubblicazione del primo romanzo (terminato proprio in quel periodo), per non parlare di colui che l’abbandona con il teatrale: “Il problema non sei tu, sono io. Meriti di meglio”. Un classico della vigliaccheria: “le scuse preferite utilizzate senza limiti di età e decenza, un modo per troncare qualunque tipo di legame, spezzarlo e sparire l’attimo dopo, credendo di essere a posto con la coscienza”. Un capitolo ancora è dedicato a Il quartetto dei disagiati della dedica. Nonostante il tratto ironico permanente in tutto il romanzo, c’è, nei vari rapporti raccontati, un’escalation di drammaticità

È significativo l’uso di riportare messaggi WhatsApp, Messanger o Instagram. Sono indubbiamente il mezzo di comunicazione che tutti noi usiamo quotidianamente, forse il più ambivalente: per certi versi, sincero, spontaneo, immediato, diretto; per altri, esattamente il contrario: dissimulatore, impersonale, artefatto: “creano un’illusione nell’illusione, creano trappole in cui è facile cadere quando si è fragili (…) tanto che a un certo punto ho cominciato a chiedermi quanto potesse essere sano continuare ad alimentare queste pseudo conoscenze virtuali, relazioni platoniche, persone sulle quali proiettiamo tutte le nostre debolezze”. Proprio per questa sua ambivalenza, la messaggistica social è un elemento fondamentale nelle storie di Claudia, non solo perchè molte di esse traggono origine proprio dai social, ma anche perchè ne diventano lo strumento di chiusura, fornendo alla protagonista il modo di smascherare la falsità dell’individuo: “Ci sono persone che passano la loro vita a interpretare ruoli che non appartengono loro, persone incapaci di conoscersi a fondo, di farsi delle domande, di capire chi siano e quale potrebbe essere il loro posto nel mondo. Persone che vivranno sempre nel limbo di se stesse e che, di tanto in tanto, riusciranno a trascinare qualcuno nel loro buco nero fatto di menzogne e di scappatoie, pur di non uscire allo scoperto. Ci sono persone che non sanno e non vogliono guardarsi mai allo specchio, interrogarsi sui propri errori, riconoscerseli e provare a essere migliori. Persone da cui stare alla larga per non finire nel loro baratro”.

Resta, soprattutto, una delusione profonda per la malafede, l’inganno, la doppiezza e l’inevitabile amara disillusione. Quante volte ricorda l’interesse, l’attrazione, perfino l’entusiasmo. Poi, la voce interiore, quel Grillo Parlante che chiama anche suo sesto senso, che non è tanto la coscienza – o non solo almeno – quanto piuttosto, per lei, l’esperienza vissuta, la ragione applicata, una sorta di filtro finissimo della realtà, che le apparteneva, ma che, di fronte al fascino dell’istinto, del lasciarsi andare, inevitabilmente, svaniva. Lasciarsi andare è al centro della sua autocritica. Ma come non si può lasciarsi andare a vent’anni? Anche a trenta? Quando si è soli e si sente il bisogno di qualcuno? Quando quel qualcuno sembra arrivato? Con il suo fascino ogni volta diverso. Come se, sotto sotto, dietro ogni uomo del suo percorso sentimentale ci fosse sempre la stessa persona, ogni volta con una maschera diversa. Perchè, in fondo, la superficialità nel trattare il sentimento di una persona, alla fine è sempre quella. Se non c’è sincerità, vera, trasparente come l’acqua, allora, sono solo tutte maschere indossate. Poco importa cosa rappresentino. Sono infide: “Mettere da parte alcune persone, allontanarle da noi, dalla nostra vita, significa farci un regalo. Ciò che siamo è prezioso e non tutti meritano di conoscere e vivere ciò che abbiamo dentro”.

A volte gli autori non amano sentirsi chiedere “quanto c’è di te nel protagonista del tuo romanzo?”. Ma in Pensavo fosse amore, invece era un caso umano, c’è indubbiamente tanta Claudia. Davanti allo specchio di chi la legge, si racconta nella sua ingenuità, nel suo bisogno ossessivo di amore, di romanticismo, di fedeltà; nella sua spensierata fiducia riposta nelle persone, a partire dagli amici e dalle amiche che inevitabilmente – chi non si sente regolarmente dire le stesse cose nelle stesse circostanze scagli la prima pietra – le consigliano di gettarsi, di vivere la sua giovinezza, di provare, di non rinchiudersi: “Ma vai, conosci qualcuno, svagati un po’, mica dev’essere per forza l’uomo della tua vita. È un’uscita! Che sarà mai”.

Quelli che sembrano cliché banali diventano in queste sue storie a non lieto fine, delle armi di difesa sguainate dalla protagonista, ma ben presto spuntate e rese inefficaci. Di fronte alla simulazione, alla manipolazione, al doppio gioco, o anche solamente ad un insensibile egocentrismo: “Ho imparato che dietro gesti bellissimi non sempre c’è verità ma che, a volte proprio dietro quelle eccessive attenzioni si possono nascondere lati oscuri con i quali le persone non fanno i conti e che sfogano poi sugli altri. Ho imparato che bisogna andarci piano con la parola fiducia perché non è mai scontata e non è mai certa.

Romanzo rosa arricchito di elementi autobiografici, acquista una connotazione di romanzo introspettivo e di formazione, diventa un veicolo di amicizia offerta a tutte – donne in particolare, senza dubbio – coloro che si sono trovate in situazioni simili, di incoraggiamento reciproco a credere prima di tutto in se stesse, nella propria capacità di ascoltarsi e stimarsi, senza permettere che individui senza scrupoli o anche semplicemente egoisticamente fragili, si prendano gioco della loro ingenuità. Perchè quella ingenuità è una forza, non una debolezza, è  una risorsa di sensibilità, moralità ed altruismo.